Thelma & Louise
1991
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Regista
Thelma & Louise non è solo un lungo canto alla libertà, all’emancipazione femminile, all’affrancamento da ogni convenzione sociale. È un grido di battaglia contro l'assuefazione domestica, un inno sferzante a una libertà guadagnata con la forza e la disperazione, e al contempo un’indagine profonda sui meccanismi dell’oppressione e della reazione. Nel panorama cinematografico dei primi anni Novanta, in un'epoca ancora reticente a concedere piena visibilità alle narrazioni femminili complesse e autonome che non fossero mero contorno, il film di Ridley Scott si ergeva come un manifesto audace, quasi profetico, anticipando discussioni sul patriarcato e sul consenso che sarebbero esplose decenni dopo con prepotente urgenza.
Thelma & Louise è anche un road movie innamorato dei luoghi che lambisce, un delicato ritratto psicologico di due donne che riscoprono la propria sensibilità, fino a quel momento sopita dall’agghiacciante routine, viaggiando insieme. La macchina, una Thunderbird convertibile del ’66, non è un semplice mezzo di trasporto, ma un’estensione della loro stessa volontà di evadere, un guscio protettivo che le conduce attraverso panorami che mutano con la stessa rapidità con cui si trasformano le loro anime. Dalla polverosa opacità dell'Arkansas, che simboleggia la loro esistenza soffocante, al grandioso ed enigmatico paesaggio del West, ogni miglio percorso è un passo verso l'auto-definizione. La quotidianità soffocante, fatta di mariti dispotici, fidanzati superficiali e lavori insignificanti, cede il passo a una scoperta di sé fatta di risate liberatorie, lacrime autentiche e una solidarietà femminile che si cristallizza sotto il sole implacabile del deserto, trasformandole da ancelle in eroine di un’epopea personale.
Ridley Scott plasma due figure femminili che sono divenute simbolo di ribellione ad una società patriarcale per molti versi opprimente, due vere e proprie icone di un anticonformismo giocato sugli sguardi, sulle parole, sulla fragile complicità delle due protagoniste. Con la sua maestria visiva e la sensibilità di una sceneggiatura, quella di Callie Khouri, che vinse un Oscar e ridefinì il dramma on-the-road, Scott non si limita a inquadrare due donne in fuga, ma le eleva a archetipi di una ribellione ineludibile. Susan Sarandon e Geena Davis non interpretano personaggi, ma diventano incarnazioni di un desiderio primordiale di autonomia. La loro chimica sullo schermo è palpabile, un'alchimia rara che permette allo spettatore di credere, con ogni fibra, alla genesi di questa sorellanza indissolubile. È nella loro interazione, negli sguardi che si scambiano, nel modo in cui il supporto reciproco diventa l’unico faro in un mondo che le vuole punire, che si annida la vera forza del film. Il loro anticonformismo non è una posa, ma una conseguenza diretta del loro risveglio spirituale e materiale.
La storia narrata è imperniata sul casus belli che vede le due ragazze uccidere un balordo molestatore in un parcheggio pubblico. Questo atto, apparentemente incidentale, non è un mero espediente narrativo; è il nodo gordiano che scioglie le catene di Thelma e Louise, spingendole oltre il punto di non ritorno. È un atto di autodifesa che la società, nella sua inerzia patriarcale, non può e non vuole comprendere o perdonare. Il film non giudica la loro reazione, ma esplora con acuta intelligenza le conseguenze di una scelta dettata dalla necessità e dalla frustrazione accumulata, svelando le ipocrisie di un sistema giudiziario e sociale che spesso condanna le vittime e protegge gli aggressori, o che quantomeno non offre vie d'uscita reali e sicure. La scena stessa, nella sua cruda e immediata brutalità, è un pugno nello stomaco che definisce subito i termini della loro nuova esistenza: fuori dalla legge, ma paradossalmente più autentiche e libere che mai.
Da quel momento inizierà la loro fuga che le porterà dall’Arkansas all’Oklahoma. La fuga non è solo una traiettoria geografica da un confine all'altro, ma una progressiva denudazione delle maschere sociali e delle inibizioni autoimposte. La strada, nel suo infinito orizzonte, diventa metafora della libertà ma anche del limite, un labirinto esistenziale da cui non si può fuggire se non affrontandolo fino in fondo.
Mentre la polizia stringe il cerchio intorno a loro, le due fanciulle vivranno la strada come un prisma che restituisce sensazioni sopite, paesaggi inesplorati, atmosfere mai assaporate. Mentre l'agente Slocumb (un empatico Harvey Keitel), quasi un Tiresia moderno capace di cogliere la complessità delle loro motivazioni, cerca di comprenderle e anticiparle, le due donne si spogliano delle aspettative altrui: Thelma si trasforma da ingenua e dipendente a ladra audace e stratega, manifestando una scaltrezza insospettabile; e Louise, la più pragmatica e razionale delle due, rivela la sua vulnerabilità e il suo passato tormentato, aggiungendo strati di profondità psicologica che rendono la loro odissiaca fuga un viaggio non solo spaziale, ma interiore. Il genere road movie, solitamente dominato da figure maschili alla ricerca di redenzione o evasione – basti pensare a "Easy Rider" o "On the Road" – qui si tinge di sfumature inedite, ponendo al centro la liberazione femminile come atto politico e profondamente personale, un rovesciamento coraggioso dei tropi di genere.
Menzione di rito per la scena finale: il volo in stop-motion dell’auto che si getta nel precipizio e l’inquadratura ravvicinata dei due visi sorridenti, è entrata a buon diritto nell’immaginario collettivo andando a costituire una sorta di wallpaper virale impresso nel desktop della nostra mente. La menzione d'obbligo per l'epilogo è insufficiente a coglierne l'eco sismico. Quella scena finale – l'auto che si lancia nel Grand Canyon, sospesa in un istante eterno di sublime libertà prima di un inevitabile epilogo – non è solo una conclusione, ma un’affermazione, un manifesto in movimento. È un fotogramma che si è impresso indelebilmente nella retina collettiva, non per la sua intrinseca tragicità, ma per la sua ineffabile carica di trionfo e sfida. È un'immagine che sfida la gravità non solo fisica, ma anche sociale, rievocando l'estasi e la malinconia di altri destini cinematografici senza ritorno, come quello di Bonnie e Clyde di Arthur Penn, ma con una risonanza specifica legata alla volontà femminile di autodeterminazione contro ogni forma di coercizione. La scelta di volare anziché arrendersi diventa un simbolo di martirio volontario, un atto estremo di protesta contro un sistema che non concede scampo, ma che le donne rifiutano di legittimare con la loro sottomissione. Quel sorriso, colto nell'attimo fatale, è un sigillo su un patto di lealtà incrollabile, un faro che illumina il significato di una libertà totalizzante, anche se effimera.
Thelma e Louise non cedono di fronte all’oppressività della società, non arretrano dinanzi a chi ha dato loro la caccia, non scelgono la via più facile. Non c'è resa, non c'è pentimento, solo un’irrinunciabile affermazione di sé, un urlo silenzioso che si propaga oltre lo schermo, sfidando il conformismo e la predestinazione.
Al contrario la loro è un’apologia della libertà, del più assoluto affrancamento da ogni vincolo, il loro sorriso che si perde nel vuoto è uno squarcio nell’anima di tutti noi. Il loro è un atto di sfida non solo alla legge, ma alla stessa concezione di "femminilità accettabile" o addomesticata. È un memento mori non alla morte in sé, ma a una vita che non è stata pienamente vissuta fino a quando non si è osato sfidare il limite, fino all'ultimo respiro di autonomia. Quel sorriso che si dissolve nel vento non è un segno di sconfitta, ma un'esultanza che riverbera nell'anima di chiunque abbia mai sentito il peso delle convenzioni o la morsa dell'oppressione, ricordandoci che la vera libertà risiede talvolta nella capacità di rifiutare i compromessi, anche quando il prezzo da pagare è l'annullamento fisico. È uno squarcio nell’anima di tutti noi, perché tocca la corda universale della ricerca di autenticità e del coraggio di essere, contro tutto e tutti.
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