Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Titanic

1997

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Un kolossal da camera. Se si dovesse distillare l'essenza paradossale di Titanic, questa sarebbe la formula più precisa. James Cameron, demiurgo-ingegnere con un'ossessione prometeica per gli abissi oceanici e tecnologici, non ha semplicemente girato un film; ha varato un'imbarcazione cinematografica autonoma, un leviatano di celluloide che, come il suo omonimo, appariva destinato a un glorioso naufragio produttivo, per poi emergere dalle acque gelide del box office come il mito che aveva scelto di raccontare. L'opera di Cameron è un Giano Bifronte estetico: da un lato, l'epica smisurata, lo spettacolo totale che rievoca i fasti di David Lean, con la storia d'amore individuale che funge da bussola emotiva nel turbine di un evento epocale; dall'altro, un melodramma quasi intimista, un Kammerspiel ambientato nei corridoi dorati e nelle viscere infernali di una prigione galleggiante, un microcosmo edwardiano destinato all'annientamento.

Il genio di Cameron non risiede tanto nell'aver orchestrato la più grande e terrificante sinfonia di distruzione mai vista su schermo fino a quel momento – un'impresa tecnica che ancora oggi sbalordisce per la sua brutale fisicità – quanto nell'aver compreso che la nave stessa era il vero protagonista. Il Titanic del 1997 non è una scenografia, ma un personaggio complesso e tragico. Viene presentato con una venerazione quasi sacrale, un'ode alla Gilded Age, una cattedrale d'acciaio e hybris tecnologica. Le carrellate digitali che ne esplorano ogni ponte e salone non sono mero sfoggio di CGI, ma una mappatura dell'anima della macchina, un prologo che ne stabilisce la grandezza per rendere ancora più assordante il silenzio della sua morte. In questo, Cameron si rivela un erede inaspettato dei romanzieri naturalisti: il suo Titanic è un organismo, un ambiente deterministico che plasma e schiaccia i destini di chi lo abita. Le classi sociali non sono solo separate da ponti e paratie, ma da un vero e proprio sistema di caste architettonico, un'implacabile geografia del privilegio che solo la violenza della natura potrà scardinare.

Al centro di questa struttura, come il cuore pulsante nelle caldaie, si agita una storia d'amore che la critica più snob ha frettolosamente liquidato come un cliché da romanzo rosa. Errore di prospettiva. Quella tra Jack Dawson e Rose DeWitt Bukater non è una semplice romanza, ma un archetipo romantico distillato alla sua essenza più pura, quasi un'allegoria. È Romeo e Giulietta a bordo di una Babele sull'acqua, dove i Montecchi e i Capuleti sono rimpiazzati dalla prima e dalla terza classe. Jack non è un personaggio realistico, e non vuole esserlo. È un catalizzatore, un trickster bohémien, l'incarnazione di una vitalità anarchica e whitmaniana che irrompe nel mondo asfittico e repressivo di Rose. Lui è l'artista che vede oltre la superficie, colui che la spoglia – letteralmente e metaforicamente – delle sue costrizioni sociali per rivelarne l'essenza. La celeberrima scena del ritratto, con il suo richiamo diretto all'odalisca di Ingres, non è solo erotismo patinato; è un atto di liberazione, la creazione di una nuova identità attraverso lo sguardo dell'Altro.

Rose, d'altro canto, compie un percorso di emancipazione che la trasforma in una sorta di Nora Helmer ibseniana fuggita dalla sua casa di bambola. All'inizio del film, è circondata da oggetti d'arte moderna (un Monet, un Picasso) che il suo fidanzato, il glaciale Cal Hockley, disprezza. Quei quadri non sono un vezzo da scenografo, ma un indizio epistemologico: Rose possiede già lo sguardo per vedere il futuro, un'anima moderna intrappolata in una teca edoardiana. Jack non le insegna a vedere, ma le dà il coraggio di agire secondo la propria vista. Il suo grido finale, "Io sono il re del mondo!", non è un'esplosione di arroganza giovanile, ma l'affermazione di un esistenzialismo radicale: il dominio del mondo non sta nel possesso (il diamante "Cuore dell'Oceano", il potere di Cal), ma nell'esperienza assoluta del presente.

Il film raggiunge il suo apice escatologico nel lungo, straziante naufragio. Cameron dirige la catastrofe non come un action movie, ma come un balletto macabro, un dipinto di Hieronymus Bosch in movimento. Ogni dettaglio è studiato per massimizzare l'orrore e la pietà: il quartetto d'archi che suona fino all'ultimo, l'ingegnere Andrews che attende la fine accanto al suo orologio, la madre irlandese che racconta una favola della buonanotte ai suoi figli condannati. Non è sadismo registico, ma un profondo senso della tragedia greca, dove l'ineluttabilità del fato si scontra con la disperata, commovente dignità umana. La verticalità della nave che si inabissa diventa una metafora visiva potentissima: la rigida stratificazione sociale viene letteralmente ribaltata, e tutti, ricchi e poveri, scivolano verso un'unica, democratica fine.

Uscito nel 1997, sul finire di un millennio carico di ottimismo tecnologico e di ansie latenti, Titanic funzionò come un memento mori su scala globale. In un'epoca dominata dalla nascente bolla di Internet e dalla fede cieca nel progresso, il film di Cameron riesumava un fantasma del primo Novecento per ricordarci la fragilità di ogni certezza umana di fronte al caos primordiale. Era, ed è, una grandiosa parabola sulla superbia tecnologica, un monito che risuona oggi con una potenza forse ancora maggiore. È anche, in una prospettiva meta-cinematografica, un monumento all'epica analogica. Realizzato con set fisici colossali, migliaia di comparse e una cura maniacale per il dettaglio storico, rappresenta il ponte perfetto tra il cinema classico di Hollywood e la nuova era del digitale, che esso stesso contribuì a inaugurare. La sua stessa produzione, data per spacciata da tutti i media, divenne una leggenda che ne amplificò il mito: la nave che non poteva affondare, il film che non poteva fallire.

La struttura a cornice, con la narrazione dell'anziana Rose, è il colpo di genio che eleva Titanic da grande spettacolo a riflessione sulla memoria, sul racconto e sull'immortalità che solo l'amore – e il cinema – possono garantire. Il tesoro che il cacciatore Brock Lovett cerca è materiale, il diamante. Ma il vero "Cuore dell'Oceano" è la storia custodita da Rose. Quando, nel finale, l'anziana donna getta il gioiello nell'abisso, non sta compiendo un gesto di rinuncia, ma un rituale di restituzione. Il diamante, freddo e perfetto, appartiene al passato, al relitto. Ciò che vive è il ricordo, la storia che lei ha finalmente trasmesso. La sequenza onirica finale, il suo ritorno alla Grande Scalinata dove un Jack sorridente la attende tra gli applausi dei compagni di viaggio, non è un semplice happy ending ultraterreno. È la visualizzazione del potere del cinema stesso: creare un luogo oltre il tempo e lo spazio, un'utopia della memoria dove i morti non muoiono mai e un amore impossibile trova il suo compimento eterno. In quel momento, il Titanic cessa di essere un relitto sul fondo dell'oceano e diventa un Walhalla personale, un mito immortale. E noi, spettatori, siamo lì con loro, testimoni di una storia che, come un cuore, continuerà a battere.

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