Todo modo
1976
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Regista
Un requiem per un cadavere che non sa di essere morto. Forse non c’è modo più esatto per definire la natura liturgica e tanatologica di "Todo Modo", l’opera testamentaria con cui Elio Petri, nel 1976, non si limitò a filmare la fine di un’epoca, ma officiò il rito funebre di un’intera classe dirigente, ritraendola come un grottesco consesso di zombie in un bunker modernista. Il film è un monolite nero piantato nel cuore degli Anni di Piombo, un oggetto cinematografico così virulento, sgradevole e profetico da essere stato divorato e rigettato dalla storia stessa, condannato a un’esistenza da reperto maledetto, quasi un samizdat visivo sopravvissuto alla sua stessa censura fattuale.
Tratto dall'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, il film di Petri compie un atto di tradimento sublime, un'iperbole che trasfigura l'indagine quasi metafisica dello scrittore siciliano in un'allucinazione espressionista, un Grand Guignol politico che odora di zolfo e incenso stantio. Laddove Sciascia usa il bisturi per sezionare le connessioni tra potere e mistero, Petri impugna la clava e la telecamera a mano, sfracellando ogni residuo di realismo per precipitare in un girone dantesco in cemento armato. Il luogo di questo sabba è l'Eremo di Zafer, un eco-mostro brutalista partorito dalla mente di Dante Ferretti, che qui concepisce un non-luogo assoluto: un albergo-cripta, un labirinto asettico che è insieme un confessionale, un'aula di tribunale e una tomba. È un’architettura dell’anima, un Overlook Hotel della coscienza politica italiana, dove i fantasmi non sono le vittime di un passato sanguinoso, ma i carnefici di un presente in decomposizione.
Dentro questo sepolcro avveniristico si riunisce l'intera nomenclatura del potere democristiano – ministri, senatori, banchieri, industriali – per gli esercizi spirituali ignaziani guidati da Don Gaetano (un Marcello Mastroianni mellifluo e mefistofelico, maschera di un cinismo clericale che ha da tempo barattato la fede con l'influenza). Ma il vero epicentro del sisma morale è Lui, il Presidente, incarnato da un Gian Maria Volonté che trascende la recitazione per diventare possessione demoniaca. Il suo non è un ritratto, è una vivisezione. Con una mimesi fisica e vocale che anticipa la tragedia imminente, Volonté plasma una caricatura mostruosa e agghiacciante di Aldo Moro, trasformandolo in un ticchettante automa del potere, un burattino dai gesti curiali, la cui oratoria è un profluvio di significanti vuoti, un barocchismo verbale che maschera un deserto etico. È un corpo grottesco, un Ubu Roi democristiano che balbetta, si contorce, prega e comanda con la stessa, viscida umiltà. La sua performance è una delle più coraggiose e terrificanti della storia del cinema: non interpreta un uomo, ma la malattia del potere stesso, la sua natura autofagica e parassitaria.
Petri orchestra la discesa agli inferi con la precisione di un entomologo e la furia di un iconoclasta. La macchina da presa si muove come un animale in gabbia tra i corridoi opprimenti di Zafer, catturando volti deformati dal grottesco, corpi sudati e flaccidi ammassati in rituali privi di senso. La preghiera diventa una cantilena macabra, la confessione un elenco di crimini di stato, l’Eucaristia un atto di cannibalismo simbolico. In questo, "Todo Modo" è il cugino italiano, più sporco e disperato, de "L'angelo sterminatore" di Buñuel. Come i borghesi del maestro aragonese, i potenti di Petri sono intrappolati in uno spazio che è proiezione della loro stessa prigionia interiore. Ma se in Buñuel la trappola è surreale e inspiegabile, in Petri è spaventosamente concreta: sono rinchiusi non da una forza misteriosa, ma dalle loro stesse colpe, dalla paranoia e dal terrore reciproco. L'arrivo della morte, una serie di omicidi che falcidia i presenti, non è un elemento da giallo classico, ma il detonatore che fa implodere il sistema. Il "whodunit" è un pretesto: l'assassino è irrilevante, perché sono tutti colpevoli. L'assassino è il sistema stesso, che inizia a divorare le sue stesse membra.
Il film dialoga a distanza con un altro capolavoro coevo, "Salò o le 120 giornate di Sodoma" di Pasolini. Entrambi mettono in scena un potere sadico e ritualizzato all'interno di uno spazio chiuso. Ma mentre Pasolini astrae la sua allegoria in una dimensione mitica e universale, attingendo a de Sade per parlare della natura ultima del potere, Petri affonda le mani nel fango della cronaca italiana. Il suo non è il fascismo metafisico, ma il fascismo molecolare di un regime democratico in metastasi, il marciume di un potere che si perpetua attraverso il ricatto, la corruzione e la gestione clientelare della fede. La colonna sonora di Ennio Morricone, dissonante e sacrale, amplifica questo senso di liturgia profanata, mescolando canti gregoriani a percussioni sorde, come se si stesse ascoltando la musica di un esorcismo fallito.
La tragedia, però, è che "Todo Modo" si rivelò essere non tanto una satira, quanto una profezia fin troppo accurata. Uscito due anni prima del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro, il film divenne un oggetto insostenibile dopo i fatti di via Fani. La maschera di Volonté si era sovrapposta in modo intollerabile al volto del vero statista martirizzato. Il film, che denunciava un sistema, fu accusato quasi di averne predetto e "giustificato" la crisi più drammatica. Sparì dalla circolazione, divenne un fantasma, una nota a piè di pagina per cinefili carbonari. Questa vicenda extra-filmica ne amplifica la potenza, trasformandolo in un documento storico suo malgrado, un’opera d’arte che la realtà ha inseguito e superato in ferocia.
Rivederlo oggi significa compiere un'immersione in un'apnea estetica e intellettuale. È un film difficile, respingente, claustrofobico, volutamente sgradevole. Non offre catarsi, né speranza. La sua lucidità è crudele. Petri non lascia vie di fuga, né allo spettatore né ai suoi personaggi, che alla fine danzano in una sorta di sabba finale che assomiglia più alla "Danza Macabra" di un affresco medievale che a una liberazione. È il ballo dei morti viventi sul Titanic di un'intera repubblica. "Todo Modo" è cinema politico nel senso più alto e radicale del termine: non un comizio per immagini, ma un’operazione chirurgica sull'inconscio di una nazione, un esame autoptico eseguito sul corpo ancora caldo del Potere. Un capolavoro necessario e velenoso, il cui coraggio formale e intellettuale è pari solo alla disperazione che lo pervade. È lo specchio deformante in cui un'intera classe dirigente ha visto il proprio ritratto di Dorian Gray, e ha cercato, invano, di mandarlo in frantumi.
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