Toy Story - Il mondo dei giocattoli
1995
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Regista
Un Big Bang silenzioso, avvenuto non nelle vastità cosmiche ma nel chiuso di una stanza da letto suburbana, ha ridefinito i confini dell'immaginazione cinematografica. Nel 1995, Pixar Animation Studios, all'epoca un avamposto di visionari digitali guidato da un esule della Disney e finanziato dal demiurgo della Silicon Valley, non si limitò a realizzare il primo lungometraggio interamente in computer grafica. Scatenò una rivoluzione copernicana nell'animazione, spostando il centro dell'universo narrativo dalla mano dell'artista al calcolo del processore, e nel farlo, paradossalmente, creò una delle storie più profondamente umane mai raccontate. "Toy Story" non è un film sull'animazione; è un film sull'ansia dell'essere, sulla paura primordiale della sostituzione, mascherato da commedia per bambini.
Il suo scheletro narrativo attinge a piene mani dall'archetipo del "buddy movie", la coppia male assortita costretta a collaborare, che da "La parete di fango" a "48 ore" costituisce un pilastro del cinema americano. Ma sotto questa superficie familiare, pulsa un cuore tematico ben più complesso. Woody, lo sceriffo con la cordicella, non è semplicemente un giocattolo. È un re sul suo trono, il sovrano di un microcosmo feudale – la stanza di Andy – il cui regno è definito da un'unica, fragile legge: l'amore del suo creatore. La sua posizione non è meritocratica, ma un dato di fatto esistenziale. Egli è il preferito. L'arrivo di Buzz Lightyear, astronauta avveniristico e scintillante di plastica nuova, non è l'introduzione di un rivale, ma un cataclisma teologico. È l'apparizione di un nuovo dio, tecnologicamente superiore, che minaccia di rendere obsoleto l'intero pantheon.
La paura di Woody è l'angoscia squisitamente moderna dell'obsolescenza. È la stessa ansia che attanaglia l'artigiano di fronte alla catena di montaggio, il musicista acustico di fronte al sintetizzatore, l'animatore tradizionale di fronte al software CGI che sta dando vita proprio a Woody. In un colpo di genio metatestuale, il film inscena il dramma della sua stessa creazione. Woody è il passato, la cordicella da tirare, il calore del tessuto; Buzz è il futuro, i laser, i circuiti, la promessa digitale. La loro non è una semplice rivalità, ma la rappresentazione allegorica di un cambio di paradigma culturale che stava avvenendo proprio a metà degli anni '90, con l'alba dell'era di Internet e la digitalizzazione pervasiva della vita quotidiana.
Se Woody incarna l'ansia della detronizzazione, Buzz Lightyear è protagonista di una tragedia esistenziale degna di un romanzo di Philip K. Dick. Egli è un uomo – o meglio, un giocattolo – convinto di una realtà che si rivela essere una menzogna commerciale. La sua crisi è un crollo epistemologico devastante. La scena in cui vede la propria pubblicità in televisione e tenta disperatamente di volare, schiantandosi al suolo con un braccio spezzato, è un momento di puro pathos. Il suo successivo delirio, durante il quale assume l'identità di "Mrs. Nesbitt" e partecipa a un tè con bambole senza testa, è una scheggia di follia beckettiana incastonata in un film per famiglie. È la discesa nell'abisso di chi scopre che la propria identità, le proprie memorie, la propria missione, sono solo un costrutto, un marchio registrato. Buzz è un Don Chisciotte dell'era spaziale, un cavaliere errante la cui nobile illusione si infrange contro la prosaica realtà di un codice a barre stampato sotto il suo stivale. La sua epifania non è "scoprire di essere un giocattolo", ma accettare il proprio ruolo all'interno di un universo di cui non è l'eroe protagonista, bensì un comprimario.
Il contrappunto a questo dramma interiore è la catabasi nell'inferno di Sid, il vicino di casa sociopatico. La stanza di Sid è un laboratorio gotico, un'officina da incubo dove la poetica del film vira bruscamente verso l'horror e il body-horror. Qui, John Lasseter e il suo team non si limitano a creare un antagonista; esplorano la perversione dell'atto creativo. Se Andy è un dio benevolo che anima i suoi giocattoli con l'amore, Sid è un demiurgo folle, un Dottor Frankenstein che smembra e ricompone, creando ibridi grotteschi che sfidano la "natura" del giocattolo. Eppure, anche qui, "Toy Story" sovverte le aspettative. I "giocattoli mutanti" non sono mostri, ma una comunità di reietti, una confraternita di sopravvissuti che richiama alla mente i "Freaks" di Tod Browning. Sono creature deformi e spaventose nell'aspetto, ma dotate di una solidarietà e di un codice morale che i giocattoli "normali" devono ancora apprendere. È nel loro mondo oscuro e silenzioso che Woody e Buzz sono costretti a superare il proprio egoismo e a trovare un terreno comune, capendo che la vera identità non risiede nella funzione (sceriffo, astronauta) ma nell'appartenenza a una collettività.
Dal punto di vista tecnico, il film è una testimonianza delle sue stesse, gloriose limitazioni. La difficoltà nel rendere materiali organici come la pelle umana o il pelo degli animali spinse i creatori a concentrarsi su un mondo di plastica, legno e metallo. Il risultato è un'iperrealtà tattile: si percepisce la lucentezza liscia del casco di Buzz, la trama ruvida del gilet di Woody, la freddezza del metallo della maniglia della porta. La tecnologia non era ancora in grado di simulare perfettamente il mondo reale, e proprio in questo scarto trovò la sua cifra stilistica. Il film non cerca di nascondere la sua natura artificiale, ma la celebra. È un universo di superfici sintetiche che acquista un'anima grazie a una scrittura di precisione chirurgica, a un doppiaggio ispirato e alla colonna sonora di Randy Newman, le cui canzoni agiscono come un coro greco, commentando l'azione con una malinconia agrodolce che diventerà il marchio di fabbrica emotivo della Pixar.
Un aneddoto di produzione, divenuto leggenda, illumina il cuore del progetto. Il primo montaggio del film, noto come "Black Friday reel", fu un disastro. Woody era un personaggio cinico e dispotico, la cui crudeltà rendeva la storia sgradevole. I dirigenti della Disney erano pronti a staccare la spina. Fu solo tornando al nucleo emotivo, alla vulnerabilità di Woody e alla sua disperata paura di essere dimenticato, che il team di Lasseter salvò il film e, con esso, il futuro dell'animazione. Questa non è solo una nota a margine; è la chiave di volta. "Toy Story" funziona non perché i suoi personaggi sembrano reali, ma perché provano sentimenti reali.
A quasi tre decenni dalla sua uscita, l'impatto di "Toy Story" è incalcolabile. Non ha solo generato una saga di qualità miracolosamente costante, ma ha stabilito un nuovo canone per il cinema d'animazione, fondato su un'alchimia perfetta tra innovazione tecnologica, narrazione sofisticata e una profondità emotiva capace di parlare a ogni età. Ci ha insegnato che anche gli oggetti inanimati possono avere un'anima e che la più grande delle avventure non è viaggiare "verso l'infinito e oltre", ma trovare il proprio posto nel cuore di qualcun altro. È un'opera spartiacque, un punto di non ritorno che ha dimostrato come un computer non sia solo uno strumento per disegnare, ma una macchina per sognare. E per raccontare, con una lucidità quasi crudele, la paura più umana di tutte: quella di non essere più amati.
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