Trainspotting
1995
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Regista
Un irriverente sguardo nel sottobosco dell’underground britannico dove giovinastri, bulli e pusher incrociano fatalmente i loro destini. È una discesa negli inferi di una Gran Bretagna post-thatcheriana, afflitta dalla disoccupazione endemica e da un disincanto generazionale che si esprimeva tanto nella scena rave quanto nella più torbida auto-distruzione. Il film, sin dalla sua iconica sequenza d’apertura, con quel monologo "Choose Life" scandito sul battito di Iggy Pop, si palesa come un manifesto bruciante e nichilista, una contro-proposta al conformismo borghese che non offre soluzioni, ma solo una brutale, onesta, e a tratti esilarante, rappresentazione del rifiuto.
Focus su Mark Renton, giovane eroinomane di Edinburgo, e sui suoi disperati tentativi di dare un taglio alla sua schiavitù dalla polverina bianca. Renton, interpretato da un Ewan McGregor nel suo ruolo più iconico, non è il tossicodipendente stereotipato: è intelligente, acuto, quasi un filosofo da pub, la cui voce narrante ci guida attraverso i paradossi e le miserie della sua esistenza. La sua dipendenza non è solo un vizio, ma una condizione esistenziale, un abbraccio mortale con l'oblio che lo rende, paradossalmente, più lucido sul vuoto che lo circonda. Il suo percorso è una danza tra l'anelito alla redenzione e la quasi irresistibile gravità dell'autodistruzione, un'impresa che si rivela meno una scelta morale e più una battaglia fisica, chimica, esistenziale.
Anche i suoi familiari e i suoi amici saranno più o meno coinvolti in questa impresa impossibile. Non si tratta solo di legami di sangue, ma di una co-dipendenza che trascende le convenzioni, un patto non detto di solidarietà nella caduta. I tentativi di disintossicazione di Renton non sono mai solitari; sono sempre un riflesso della sua incapacità di sfuggire a un ambiente, a una rete di relazioni tossiche e simbiotiche che lo tirano costantemente indietro, quasi a voler dimostrare l'ineluttabilità del destino collettivo.
La compagnia di Mark è una Corte dei Miracoli di relitti, sbandati e svitati di ogni sorta. Un pantheon di archetipi della sottocultura, ciascuno con la propria singolare aberrazione che, messa in risalto, crea un affresco grottesco e malinconico. È un ecosistema perverso di amicizia, tradimento e sopravvivenza, dove il legame è forgiato non dalla lealtà, ma dalla condivisione di una stessa, inevitabile, caduta.
Sick Boy, allucinato e ossigenato ragazzone che ama la birra i monologhi filosofici, è il nichilista intellettuale del gruppo, ossessionato dalle teorie su James Bond e incapace di un'azione autentica, un relitto pop-culture che incarna la pigrizia intellettuale di una generazione. Begbie, irascibile e violento che lancia bicchieri nei pub per fabbricarsi una rissa, è il più terrificante del gruppo, una forza primordiale e scatenata che non ha bisogno di droghe perché la sua stessa esistenza è una dipendenza dalla furia cieca, un monito costante alla brutalità sottostante la fragile patina di civiltà. Tommy, che dice sempre la verità e cerca di rimanere pulito, è la bussola morale destinata al martirio, l'innocente sacrificato sull'altare della dissolutezza che rende palpabile il costo umano della dipendenza, un destino tragico che funge da macabra premonizione. E Spud che, nonostante tutti i suoi difetti, è un riparo nella tempesta, il fanciullo innocente e ingenuo, la cui vulnerabilità e la cui sorprendente resilienza offrono un barlume di speranza e umorismo nel più cupo degli abissi, il cuore, seppur malconcio, del gruppo. Questi personaggi, magistralmente trasposti dalla cruda e vibrante prosa di Irvine Welsh, acquistano una tridimensionalità quasi mitologica, incarnando le diverse sfaccettature della disperazione e della ribellione.
Memorabili la scene delle lenzuola farcite di escrementi e la patinata presentazione del cesso più sporco della Scozia. Queste non sono solo scene shock, ma audaci affermazioni estetiche. La sequenza del cesso, in particolare, è un capolavoro di surrealismo grottesco: Renton che si immerge letteralmente nello sporco per recuperare le sue supposte di oppio, un tuffo nell'inferno personale che diventa quasi un rito di passaggio, un'immersione nel lercio che è al tempo stesso metafora della sua condizione e una dichiarazione di intenti stilistica. Sono momenti che sfidano lo spettatore, li trascinano in un territorio di repulsione e fascinazione, dove il disgusto è elevato a forma d'arte.
Danny Boyle confeziona uno spaccato dell’underground scozzese, con pregevoli invenzioni tecniche ispirate alla pop art e ai fumetti e ideando risorse narrative di notevole fattura. Il suo stile è frenetico, iper-energico, quasi una scarica di adrenalina visiva che emula l'effetto della droga sui sensi. L'uso di colori saturi, grandangoli distorti, movimenti di macchina dinamici, freeze-frame e riprese a bassa angolazione – spesso associate al cinema di Guy Ritchie o di Quentin Tarantino, ma qui con una sua specifica, acida vitalità – crea un'immersione quasi viscerale. La colonna sonora, una miscela esplosiva di punk, britpop e musica elettronica (Iggy Pop, Lou Reed, Blur, Underworld), non è un mero accompagnamento, ma un personaggio a sé stante, un propulsore narrativo che scandisce il ritmo vertiginoso della storia e incapsula perfettamente lo spirito dei '90. La combinazione di una narrazione in prima persona frammentata, con il voice-over di Renton che alterna cinismo e fulminanti intuizioni, e un montaggio quasi videoclipparo, rende il film un'esperienza sensoriale totalizzante, un pugno nello stomaco e una carezza all'anima.
Sgangherati e fricchettoni i personaggi che trascinano la storia in un pantano di sordidità e gaudente lussuria. Non c'è moralismo nel racconto di Boyle; la sporcizia e la dipendenza non sono solo orribili, ma a volte anche invitanti, persino divertenti. È questa contraddizione, questo "gaudente lussuria" nel cuore del degrado, a rendere Trainspotting così potente e duraturo. Il film non giudica, ma mostra, in tutta la sua cruda e disarmante verità, l'ambivalenza di una vita vissuta al margine, l'attrazione per il precipizio e la difficile, spesso fallimentare, spinta verso l'alto.
Divertimento, ironia e disperazione di fondo. È la capacità di Boyle di bilanciare il registro comico più slapstick con momenti di profonda tragedia e dramma, di passare da una risata fragorosa a un brivido di orrore, che eleva Trainspotting ben oltre il semplice film sulla droga. È un ritratto generazionale acido e senza filtri, un'opera che ha definito un'epoca e che continua a risuonare per la sua autenticità brutale e il suo stile visivo pionieristico. Un classico moderno che, con il suo "Choose Life" rovesciato, ha immortalato il grido disilluso eppure vitalissimo di una generazione alla deriva.
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