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Triangle of Sadness

2022

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Il cinema di Ruben Östlund opera come un laboratorio entomologico. L’autore svedese, novello Fabre della miseria umana, non si limita a osservare le sue creature – l'homo sapiens occidentale, post-crisi, perennemente insicuro – ma costruisce per loro terrari sempre più elaborati e crudeli, per studiarne le reazioni sotto stress. Se in Forza Maggiore la teca era una valanga e in The Square il mondo dell'arte contemporanea, con Triangle of Sadness l'esperimento raggiunge una scala monumentale, quasi cosmica. Östlund costruisce una nave dei folli del Ventunesimo secolo, un'Arca di Noè al contrario che non mira alla salvezza, ma a una purificazione escatologica attraverso i fluidi corporei, e la lancia in un mare in tempesta di contraddizioni capitalistiche.

Il film, come un trittico fiammingo dipinto da un Bosch con un account Instagram, si articola in tre pannelli distinti, ognuno dei quali disseziona una diversa forma di potere. Il primo capitolo, "Carl & Yaya", ci introduce nel purgatorio patinato della moda e dell'influencer culture. Qui, la bellezza non è un valore intrinseco, ma una valuta, un "capital asset" da monetizzare prima della sua inevitabile svalutazione. La discussione, ormai celebre, sulla divisione del conto al ristorante tra i due modelli protagonisti è un capolavoro di cringe-comedy e un saggio in miniatura sulle dinamiche di genere nell'era post-Me Too, dove i ruoli tradizionali sono implosi lasciando un vuoto nevrotico e transazionale. Östlund filma questa lite con la sua consueta, spietata pazienza, trasformando un banale litigio di coppia in una sineddoche del rapporto tra valore percepito, potere economico e fragilità maschile. È una commedia di Molière riscritta da Michel Houellebecq, dove la posta in gioco non è l'onore, ma il numero di follower.

Ma è nel secondo atto, "Lo Yacht", che l'apologo di Östlund dispiega le sue vele più ampie e mefitiche. L'imbarcazione di lusso, un microcosmo galleggiante della disuguaglianza globale, diventa il vero palcoscenico della farsa. A bordo, una galleria di caricature così precise da trascendere lo stereotipo e diventare archetipo: il magnate russo del fertilizzante (letteralmente, "I sell shit"), la coppia di anziani e amabili costruttori di armi britannici, un capitano americano alcolizzato e marxista (un Woody Harrelson magnificamente nichilista). Il regista orchestra questo bestiario con la precisione di un demiurgo sadico, preparando il terreno per la sequenza che entrerà di diritto negli annali del grottesco cinematografico: la cena del capitano.

Mentre una tempesta biblica scuote lo yacht, i ricchi passeggeri, avvezzi a piegare il mondo al proprio volere, sono costretti a confrontarsi con una forza che non possono corrompere né comprare: la fisica. La natura. E, più precisamente, la propria fisiologia. Quella che segue è una sinfonia di vomito e diarrea, una catarsi emetica che è la risposta più diretta e corporale a decenni di cinema sulla lotta di classe. Östlund prende l'eleganza formale di Buñuel – il fantasma de Il fascino discreto della borghesia aleggia su ogni portata di pesce avariato – e la contamina con la carnalità brutale de La grande abbuffata di Ferreri. Il risultato è un pandemonio viscerale, un carnevale medievale in cui i re e le regine della finanza vengono detronizzati dai loro stessi intestini. Lo scontro verbale tra il capitalista russo e il comunista americano, che si scambiano citazioni di Reagan e Lenin via interfono mentre la nave affonda nel caos, è la chiosa perfetta: l'ideologia ridotta a un gioco da salotto per ubriachi, mentre il vero potere, quello materiale, quello del corpo e della natura, reclama il suo primato. È il trionfo del rimosso, il ritorno del reale in forma liquida e maleodorante.

Se il secondo atto era l'inferno, il terzo, "L'Isola", è il purgatorio darwiniano. I pochi sopravvissuti al naufragio si ritrovano su un'isola deserta, e la struttura sociale, così rigida a bordo, si capovolge in un istante. In questo nuovo stato di natura, che riecheggia tanto Il signore delle mosche di Golding quanto, e forse più pertinentemente, Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto di Lina Wertmüller, il capitale economico e culturale diventa carta straccia. L'unica valuta che conta sono le competenze pratiche. E così Abigail, la donna delle pulizie filippina, invisibile e muta sullo yacht, emerge come matriarca indiscussa, l'unica in grado di pescare e accendere un fuoco.

Östlund, qui, evita la trappola della facile retorica rivoluzionaria. La sua non è un'utopia proletaria. L'inversione della piramide sociale non porta all'eguaglianza, ma semplicemente alla creazione di una nuova gerarchia, altrettanto spietata. Abigail assume il controllo del cibo e, di conseguenza, dei corpi (in particolare quello di Carl, il modello, che baratta favori sessuali per razioni extra di polpo), replicando le stesse dinamiche di sfruttamento che aveva subito. Il potere, sembra suggerire Östlund con un cinismo che gela il sangue, non libera: corrompe, a prescindere da chi lo detenga. La natura umana non tende all'anarchia solidale, ma a una costante rinegoziazione delle strutture di dominio. L'ambiguo finale, sospeso e carico di una tensione quasi insostenibile, lascia lo spettatore con una domanda lancinante: la civiltà è solo una sottile vernice pronta a scrostarsi, o la brutalità è l'unica, autentica forma di ordine possibile?

Certo, si potrebbe accusare Östlund di essere didascalico, persino lapalissiano nella sua critica. La sua satira non ha la finezza chirurgica di un Haneke o la surreale leggerezza del già citato Buñuel. È una satira che usa il martello pneumatico dove altri userebbero il bisturi. Ma questa presunta "mancanza di sottigliezza" è, in realtà, la sua più grande forza e la sua più acuta intuizione sul nostro tempo. In un'epoca di iper-comunicazione e di sovraccarico di stimoli, in cui l'indignazione dura lo spazio di un tweet, forse solo un'opera così sfacciatamente, corporalmente e intelligentemente brutale può ancora scuotere le coscienze. Triangle of Sadness non è un film che sussurra, ma un urlo liberatorio e disgustato. È un'opera d'arte totale, una commedia nerissima che si trasforma in tragedia greca e poi in un trattato di antropologia politica, il tutto senza mai perdere il suo ritmo impeccabile e la sua perfida, contagiosa lucidità. Un capolavoro caustico e necessario, che ci sbatte in faccia il riflesso deforme della nostra civiltà, costringendoci a guardare, e a ridere, mentre tutto va a fondo.

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