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Mancia Competente

1932

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Lubitsch, artista dotato di un prezioso e ineffabile “tocco di leggerezza” alla cinepresa, girò questo film con la consapevolezza di dover restituire su pellicola le raffinate emozioni che la piéce teatrale di Laszlo (The Honest Finder) aveva suscitato in lui e in tutti gli spettatori che avevano seguito la commedia. Indubbiamente non solo vi riuscì ma creò quella che per molti è l’archetipo ultimo della commedia raffinata e brillante, un concentrato di impalpabile parodia e di tenera ironia ben miscelati. Il regista crea un mondo di raffinata seduzione e inganni, dove l'amore e il crimine si intrecciano in un gioco di maschere e doppi sensi. Con il suo leggendario Lubitsch touch, il regista orchestra un balletto di equivoci e situazioni imbarazzanti, gettando lo spettatore in un'atmosfera dove buon gusto e disorientamento procedono di pari passo. Questo "tocco", più che una mera leggerezza, è un'arte ellittica, un'eleganza che suggerisce senza mai palesare, permettendo al pubblico di partecipare attivamente alla costruzione del senso attraverso l'intuizione e la deduzione. In un'epoca pre-Code, il film si permise un'audacia e una libertà di espressione che sarebbero state impensabili pochi anni dopo, esplorando con disinvoltura temi di adulterio e ambiguità morale, elevando l'innocenza della commedia a una sottile e maliziosa indagine sulla natura umana.

La trama, ricca di colpi di scena, ruota attorno a Gaston Monescu, un ladro di fama internazionale, che incontra per caso Lily Vautier, anch'essa ladra professionista. I due, attratti l'uno dall'altra, decidono di unire le loro forze per derubare Mariette Colet, una ricca vedova proprietaria di un'azienda di profumi. Gaston, sotto le mentite spoglie del barone Mirsky, si fa assumere come segretario di Mariette, mentre Lily si finge sua sorella. Ma il piano dei due ladri si complica quando Gaston si innamora di Mariette, trovandosi diviso tra l'amore e il dovere professionale, una dicotomia che Lubitsch trasforma in un fertile terreno per l'analisi del desiderio e dell'apparenza. Il brillante cast, con Herbert Marshall e Kay Francis a tessere la tela di questa sofisticata truffa sentimentale, eleva la materia narrativa ben oltre la semplice farsa.

Lubitsch, con la sua regia elegante e discreta, crea un'atmosfera di ambigua complicità, dove la verità e la menzogna si confondono in un gioco di seduzione e inganni. Mancia competente è un film che gioca costantemente con l'illusione e l'inganno, mettendo in scena un mondo in cui la realtà e la finzione si confondono continuamente. L'inganno non è solo un mezzo per raggiungere un fine, ma diventa un gioco raffinato, una forma di seduzione e di divertimento. Gaston e Lily si divertono a ingannare le loro vittime, ma anche a ingannarsi a vicenda. Il loro rapporto è basato su un gioco di ruoli e di maschere, in cui l'identità reale si nasconde dietro una facciata di finzione. Il loro dialogo è un duello scintillante, un balletto verbale in cui ogni battuta è un'arma o una lusinga, un esempio sublime della commedia sofisticata hollywoodiana, che trova eco in pellicole successive come quelle di Cukor o Wilder. Anche l'amore è soggetto all'illusione e all'inganno. Gaston, innamorandosi di Mariette, si trova diviso tra il suo ruolo di ladro e i suoi veri sentimenti. Mariette, dal canto suo, è attratta dal fascino del sedicente barone Mirsky, ignara della sua vera identità. L'amore tra i due nasce quindi su un fondamento di menzogna, e la loro relazione è destinata a scontrarsi con la realtà. Il film mette in luce anche l'illusione della ricchezza e del successo sociale. Mariette, ricca e viziata, vive in un mondo di apparenze, circondata da persone che la adulano per interesse. Gaston, fingendosi un nobile, riesce a entrare nel suo mondo e a conquistare la sua fiducia. Ma la ricchezza di Mariette si rivela essere un'illusione, un mezzo per nascondere la sua solitudine e la sua infelicità, un commento tagliente sulla vuotezza dell'alta società, particolarmente risonante nell'America della Grande Depressione. La critica sociale di Lubitsch non è mai didascalica, ma intrisa di una pervicace ironia che rivela le ipocrisie del mondo benestante, spesso più "ladro" nel suo opportunismo di quanto non lo siano i professionisti del furto. Menzione d’onore infine per la divina Miriam Hopkins, qui chiamata ad un sottile gioco satirico che seppe incarnare alla perfezione, donando a Lily una miscela esplosiva di astuzia, fascino e vulnerabilità celata. Non meno incisiva la performance di Kay Francis, la cui Mariette è un'icona di lusso e solitudine, e quella di Herbert Marshall, il cui Gaston è l'epitome del ladro gentiluomo, capace di rubare cuori con la stessa eleganza con cui manomette casseforti. Lubitsch in definitiva, con la sua regia elegante e discreta, plasma un mondo in cui l'illusione e la realtà si confondono continuamente in una continua dialettica di rimandi incrociati. Lo spettatore, come del resto i personaggi, viene coinvolto in questo gioco di specchi, in cui gli è precluso distinguere il vero dal falso. Ed è questa precarietà semantica in fin dei conti il nucleo centrale del film e il suo messaggio ultimo: che la verità è spesso meno interessante della finzione, e che la felicità, a volte, si trova proprio nel perpetuare la più affascinante delle bugie.

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