Tutte le ore feriscono... l'ultima uccide
1966
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Regista
Un'epigrafe latina, spesso incisa sulla fredda pietra delle meridiane, recita: Vulnerant omnes, ultima necat. Tutte le ore feriscono, l'ultima uccide. Jean-Pierre Melville, orologiaio del fato e architetto di universi crepuscolari, prende questa massima non come un titolo, ma come una dichiarazione d'intenti, la chiave di volta per il suo monumento più imponente e desolato, Le Deuxième Souffle. Un film che, nella sua traduzione italiana, sceglie di esplicitare la fonte letterale del suo spirito, diventando "Tutte le ore feriscono... l'ultima uccide". È un titolo che funge da prologo e da epitaffio, racchiudendo in sé l'intera traiettoria del suo protagonista e la filosofia del suo autore.
Melville non gira film, costruisce mondi. Mondi ermetici, sigillati sotto una campana di vetro dove l'aria è rarefatta e le regole sono quelle di un codice cavalleresco arcaico, ormai incomprensibile al mondo esterno. Se il cinema di un Godard coevo era un laboratorio caotico che smontava e rimontava il linguaggio cinematografico in tempo reale, quello di Melville è un tempio. Un tempio dedicato a un'idea di mascolinità stoica, di professionalità come liturgia laica e di onore come unica, tragica bussola morale. Il suo non è il realismo della Nouvelle Vague, ma un iper-realismo mitologico. I suoi gangster non sono criminali, sono sacerdoti di un culto morente, i cui impermeabili sono paramenti sacri e le cui pistole sono oggetti rituali.
In questo pantheon di uomini votati all'autodistruzione, Gustave "Gu" Minda, incarnato dalla monumentale fisicità di Lino Ventura, è forse la figura più tragica. La sua fuga dal carcere all'inizio del film non è un'apertura verso la libertà, ma l'inizio di una via crucis. Gu non scappa verso qualcosa, scappa dentro il suo stesso destino. Ogni passo che compie per allontanarsi dalla prigione lo avvicina inesorabilmente a una trappola più grande e definitiva: quella del suo stesso codice. Il "secondo respiro" del titolo originale non è una promessa di rinnovamento, ma l'ultimo, disperato anelito di un polmone che sta per cedere; l'ultimo colpo in canna, l'ultima scommessa contro un banco che vince sempre.
L'universo melvilliano è un'astrazione. Le sue città, che siano Parigi o Marsiglia, non sono luoghi geografici ma topografie morali. Spazi mentali, quasi dechirichiani nella loro desolazione, dove i personaggi si muovono come pedine su una scacchiera governata da una logica ferrea e imperscrutabile. La fotografia di Marcel Combes immerge tutto in un grigio siderurgico, un blu notte perenne che non è tanto un colore quanto uno stato dell'anima. È il colore della lealtà e del tradimento, della solitudine e della morte imminente. Melville, come un pittore fiammingo ossessionato dalla vanitas, riempie le sue inquadrature di oggetti – telefoni, automobili, armi – che non sono semplici oggetti di scena, ma emblemi di un mondo funzionale e spietato, privo di qualsiasi orpello emotivo.
La narrazione procede con la precisione di un meccanismo a orologeria svizzero. La celebre sequenza della rapina al furgone portavalori sulle alture desolate è un saggio di cinema puro, un balletto di gesti calcolati e silenzi assordanti che dura quasi venti minuti. Non c'è musica, solo il rumore del vento, dei motori, dei metalli. Non è azione nel senso spettacolare del termine, è processo. Come in Rififi di Dassin, a cui Melville paga un debito evidente per poi superarlo in rigore ascetico, il colpo è un lavoro, un mestiere eseguito con la dedizione di un artigiano. È in questi momenti che il cinema di Melville si avvicina a quello di Robert Bresson: la stessa attenzione al gesto, la stessa riduzione dell'umano a una funzione, la stessa ricerca di una verità trascendente non nella psicologia, ma nell'azione fisica. Ma se in Bresson la meta è la grazia divina, in Melville è l'affermazione di un'integrità professionale che è l'unica forma di redenzione possibile in un mondo senza dèi.
Lino Ventura offre una performance che trascende la recitazione per diventare pura presenza scenica. Il suo Gu è un monolite di sofferenza contenuta. Il suo volto, una maschera di granito segnata dalla stanchezza, comunica più in un silenzio che in mille parole di dialogo. È un personaggio che sembra uscito dalle pagine di Hemingway: un uomo definito non da ciò che dice, ma da ciò che fa e, soprattutto, da ciò che non fa. Quando viene ingiustamente accusato di essere un informatore, la sua missione cambia. La fuga, il denaro, il futuro perdono ogni importanza. L'unica cosa che conta è ristabilire il proprio nome, ripristinare l'onore. Come un samurai senza padrone, un rōnin del milieu parigino, Gu è vincolato a un bushidō personale che lo costringe a tornare sui suoi passi per affrontare la morte, pur di non vivere nel disonore.
Questa ossessione per il codice lo rende una figura anacronistica già nel 1966. Il mondo intorno a lui sta cambiando. I gangster più giovani sono meno interessati all'onore e più al profitto. La polizia, incarnata dall'astuto e quasi ammirato Commissario Blot (un superbo Paul Meurisse, che sembra l'altra faccia della stessa medaglia di Gu), usa metodi più sottili e psicologici. Gu e Blot sono due dinosauri, ultimi rappresentanti di due ordini opposti ma speculari, che si capiscono e si rispettano perché condividono la stessa logica assoluta. Il loro confronto finale non è uno scontro tra bene e male, ma il dialogo muto tra due professionisti che sanno che la partita deve concludersi secondo le regole, anche se le regole portano alla distruzione.
Il film è una meditazione sul tempo. Il tempo della fuga, il tempo che stringe, il tempo che separa Gu dalla sua libertà e, infine, dalla sua fine. Ogni scena è scandita da un ritmo inesorabile, una marcia funebre che non concede tregua. Melville dilata e contrae la durata a suo piacimento, costringendo lo spettatore a entrare in una dimensione temporale quasi ipnotica. Si avverte il peso di ogni minuto, la pesantezza di ogni ora che ferisce. L'ultima, lo sappiamo fin dall'inizio, ucciderà. Non c'è suspense sul cosa accadrà, ma solo sul come e sul perché. La tragedia non sta nell'evento, ma nella sua ineluttabilità.
In questo senso, Le Deuxième Souffle è quasi una tragedia greca mascherata da polar. Gu Minda è un Edipo che, invece di accecarsi, sceglie di guardare in faccia il proprio destino e di andargli incontro a testa alta. La sua hybris non è l'arroganza, ma un'incrollabile fedeltà a se stesso. In un'epoca, la fine degli anni '60, che si preparava a contestare ogni forma di autorità e di regola, Melville firma il suo capolavoro più classico e reazionario, nel senso etimologico del termine: un'opera che reagisce alla modernità riaffermando la supremazia di valori antichi e assoluti. Un film freddo come l'acciaio di una canna di pistola, preciso come il ticchettio di una bomba a orologeria, e desolatamente bello come un epitaffio scritto sulla tomba di un'intera mitologia. L'ultima ora suona, e il silenzio che segue è quello assordante e perfetto dei capolavori.
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