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Tutti gli Uomini del Presidente

1976

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Il film documento di Pakula è uno sguardo finalmente disincantato dentro i torbidi rivolgimenti dell’America repubblicana che da un lato portava avanti una politica estera aggressiva e dall’altro instaurava un regime interno da caccia alle streghe bollando qualsiasi avversario come sovversivo o comunista. Un'America in cui il potere esecutivo, pervaso da una paranoia sistemica, tentò di soffocare ogni voce dissenziente, proiettando ombre di sovversione e comunismo su chiunque osasse investigare o dissentire. Non si tratta di una semplice metafora: è la cronaca di un periodo in cui la democrazia sembrò per un attimo trasformarsi in un simulacro, e la sfiducia nelle istituzioni raggiunse vette inaudite, ereditando le cicatrici del trauma vietnamita e le ragnatele di un maccartismo mai del tutto sopito. Pakula, maestro indiscusso del "thriller paranoico", genere che lui stesso aveva contribuito a definire con capolavori quali Una squillo per l'ispettore Klute (1971) e, soprattutto, Perché un assassinio (1974), non propone un'agiografia né un melodramma retorico, bensì un'immersione quasi entomologica, una vivisezione di un'epoca di profonde disillusioni, dimostrando come il potere, una volta corrotto, si auto-alimenta e si difende con ogni mezzo.

La vera storia dei due giornalisti del Washington Post che scoperchiarono il vaso di Pandora con l’inchiesta sul Watergate, è più che una semplice ricostruzione storica; è un'ode al giornalismo investigativo, un'esplorazione meticolosa del mestiere che, con la sua ostinata ricerca della verità, funge da ultimo baluardo contro l'arroganza del potere. La vicenda prende le mosse nel 1972 con l’arresto di 5 uomini introdottisi nel quartier generale del Partito Democratico, un evento inizialmente liquidato come "una rapina di terz'ordine". Da qui inizia una girandola serrata di avvenimenti, un'escalation che tra intercettazioni, depistaggi e un crescente senso di minaccia, culminerà con le dimissioni del presidente Nixon, in una sequenza di eventi che, pur essendo nota allo spettatore, mantiene una tensione ineludibile grazie all'approccio narrativo.

Magistrale Redford nel ruolo di Bob Woodward, che si cala nell'algida e metodica determinazione del cronista con una recitazione misurata ma incisiva, e al suo fianco un altrettanto ispirato Dustin Hoffman, che dona al ribelle e più istintivo Carl Bernstein una contagiosa energia. La loro alchimia sullo schermo è il motore pulsante del film, una partnership professionale che diventa il fulcro emotivo di una trama altrimenti incentrata su fatti e procedure. Ma è Pakula in cabina di regia a tessere la tela di questa straordinaria opera. La sua mano è invisibile e al contempo onnipresente: con un uso sapiente delle ombre, dei silenzi, dei campi lunghi che isolano i personaggi in uffici vasti e minacciosi, e dei primi piani che ne catturano l'angoscia, crea un'atmosfera di crescente paranoia. La redazione del Washington Post diventa quasi un personaggio a sé stante, un labirinto di scrivanie e telefoni, un alveare brulicante di un'attività incessante e vitale, trasformando l'atto di digitare su una macchina da scrivere o di effettuare una telefonata in un gesto di epica ribellione.

Un film che divora la cronaca rimodulandola in un flusso avvincente di avvenimenti, distillando la complessità di migliaia di pagine di investigazione in un ritmo incalzante, senza mai sacrificare la veridicità degli eventi. Pakula impernia il film sui libri di Bob Woodward e di Carl Bernstein, "All the President's Men" e "The Final Days", filtrati dalla sceneggiatura di William Goldman. La genialità di Goldman è davvero intelligente nell’assemblare i due punti di vista, mantenendo la narrazione focalizzata sul processo investigativo, sul "come" piuttosto che sul "cosa", e sulla tenacia dei due giornalisti, senza assumere prospettive privilegiate o cedere a didascalismi. La sua scrittura, essenziale ma densa, evita ogni retorica eroica, ponendo l'accento sulla fatica, la frustrazione e i pericoli intrinseci alla ricerca della verità.

Ne scaturisce una visione audacemente nitida di una realtà in disfacimento, un punto di vista privilegiato e obiettivo sopra uno degli avvenimenti che ha segnato la storia degli Stati Uniti. L'effetto è quasi documentaristico nella sua fedeltà procedurale, eppure la tensione è quella di un thriller classico, che tiene lo spettatore incollato allo schermo nonostante l'esito finale sia già scritto nella storia. "Tutti gli Uomini del Presidente" non è solo un monumento cinematografico a un momento cruciale della storia americana; è un monito intramontabile sull'importanza della trasparenza democratica e sul potere della stampa come sentinella della libertà. La sua rilevanza, in un'epoca di "fake news" e polarizzazione politica, è oggi più che mai lampante, confermandolo come un classico imprescindibile, capace di trascendere il suo specifico contesto storico per farsi universale riflessione sull'etica del potere e sulla responsabilità civile.

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