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Tutti insieme appassionatamente

1965

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Un colosso di sentimentalismo zuccherino, un monolite di kitsch sacro, un’operazione di ingegneria emotiva talmente perfetta da trascendere il buon gusto e approdare direttamente nell'iperuranio del mito cinematografico. Analizzare “Tutti insieme appassionatamente” (un titolo italiano che, per una volta, coglie l’essenza debordante dell’originale “The Sound of Music”) significa maneggiare un materiale culturale ad altissima densità, un artefatto che ha plasmato l’immaginario collettivo con la stessa forza inesorabile con cui Maria insegna ai piccoli von Trapp la scala diatonica. Liquidarlo come un semplice musical per famiglie sarebbe un errore critico madornale, l’equivalente di scambiare la Cappella Sistina per un soffitto affrescato con perizia.

La pellicola di Robert Wise, uscita in un 1965 gravido delle ansie della Guerra Fredda e delle prime, cupe avvisaglie del Vietnam, agisce come un potentissimo contro-incantesimo. È un’iniezione di certezza in un’epoca di dubbio, un ritorno a una favola dove il Bene e il Male hanno contorni netti, manichei, riconoscibili come le uniformi nere delle SS contro i candidi abiti tirolesi. Il suo successo monumentale non fu un caso, ma la risposta a un bisogno profondo di evasione in un passato idealizzato, un’arcadia alpina dove ogni problema può essere risolto con una canzone ben assestata e una piroetta sul prato.

La struttura narrativa è archetipica, quasi un calco del Bildungsroman applicato non a un singolo individuo, ma a un intero nucleo familiare. L'arrivo di Maria, interpretata da una Julie Andrews al culmine del suo carisma da Mary Poppins post-noviziato, è l'irruzione del dionisiaco in un universo apollineo. La villa del Capitano von Trapp (un Christopher Plummer magnificamente rigido, che notoriamente mal sopportava la melassa del suo ruolo, definendo il film “The Sound of Mucus”) è un regno di ordine militaresco, scandito non da orologi ma da fischietti. È un sistema chiuso, efficiente, sterile. I bambini non sono individui, ma unità in una parata domestica. Maria, con la sua chitarra come scettro e la sua fede anarchica nella gioia, è l’agente del caos fecondo. Non porta la magia soprannaturale della tata di P.L. Travers, ma una magia più terrena e potente: quella dell'arte. La sua missione è una sorta di rieducazione sentimentale che ricorda da vicino le teorie pedagogiche di Rousseau: è la Natura, rappresentata dalle montagne e dal canto spontaneo, che deve redimere l'uomo dalla rigidità artificiale della civiltà.

Robert Wise, un regista dal mestiere solidissimo (da “Ultimatum alla Terra” a “West Side Story”, la sua versatilità è sbalorditiva), comprende che la favola necessita di una cornice visiva altrettanto monumentale. Girato in Todd-AO 70mm, il film è una sinfonia per gli occhi. La celeberrima sequenza d’apertura, con quella vertiginosa carrellata aerea che si stringe su Julie Andrews in cima a una montagna, non è una semplice scelta estetica: è una dichiarazione d’intenti. È il cinema che si fa sublime romantico, quasi citando i paesaggi di Caspar David Friedrich ma sostituendo l’angoscia esistenziale con un’esuberanza tutta americana. Le Alpi Salisburghesi non sono uno sfondo, ma un personaggio, un teatro divino che amplifica la purezza della storia e la grandezza della partitura di Rodgers e Hammerstein. Ogni inquadratura è calibrata per essere iconica, ogni colore è saturo al punto da sembrare una fantasia iperrealista. Wise crea un Gesamtkunstwerk popolare, un'opera d'arte totale dove musica, paesaggio ed emozione si fondono in un’esperienza sensoriale avvolgente e, in ultima analisi, irresistibile.

Ma sotto la glassa color pastello si agita un’oscurità incombente, ed è proprio in questo cortocircuito che il film trova la sua inaspettata profondità. L’Anschluss, l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, non è un semplice colpo di scena nel terzo atto. È il serpente che si insinua nell’Eden. Il film gestisce la Storia con l'astrazione di una fiaba. Il nazismo non viene analizzato nelle sue complesse e terrificanti radici socio-politiche; viene presentato come un’entità astratta del Male, una macchia nera che minaccia di inghiottire i colori vivaci del mondo di Maria. Le svastiche appaiono come simboli maligni in un racconto di Tolkien, e i gerarchi sono cattivi da operetta, la cui minaccia è reale ma priva di spessore psicologico.

Questa semplificazione, tuttavia, non è un difetto, ma una scelta funzionale alla tesi meta-narrativa del film: l’arte come ultimo baluardo contro la tirannia. La progressione è cristallina. Inizialmente, la musica serve a guarire una famiglia disfunzionale, a trasformare l’obbedienza in amore. Successivamente, diventa uno strumento di identità culturale. La scena in cui il Capitano, dopo anni di silenzio, imbraccia la chitarra e canta "Edelweiss" è potentissima. Quel semplice canto folk, una canzone inventata per il musical ma che suona autentica come un inno secolare, diventa un atto di resistenza passiva, un’affermazione di appartenenza contro l’omologazione violenta dell'ideologia nazista. Infine, nell’indimenticabile sequenza del festival canoro, la musica si trasforma in un’arma strategica, un diversivo per orchestrare la fuga. L'arte non è più solo conforto o identità, ma strumento attivo di liberazione. La famiglia von Trapp non fugge dai nazisti combattendo con le armi, ma cantando. È il trionfo definitivo della poetica del film.

La fuga finale attraverso le montagne (geograficamente inaccurata, come molti hanno fatto notare, dato che quelle montagne portano in Germania e non in Svizzera, ma chi se ne cura?) sigilla la trasformazione della storia in leggenda. La famiglia non si limita a scappare; ascende, letteralmente, verso un piano mitico, scomparendo in quel paesaggio sublime che li aveva accolti all'inizio. Diventano essi stessi una storia da raccontare, un simbolo di speranza.

“Tutti insieme appassionatamente” rimane un paradosso affascinante. È un’opera profondamente conservatrice nei suoi valori – la centralità della famiglia, della fede, della patria – eppure radicale nella sua fede assoluta nel potere salvifico e sovversivo della creatività. È un film la cui superficie levigata e rassicurante nasconde un nucleo tematico sorprendentemente robusto. La sua influenza è incalcolabile, non solo sul genere musical, ma sulla cultura popolare tout court, citato, parodiato e omaggiato all'infinito, da “Family Guy” a Lars von Trier in “Dancer in the Dark”, che ne rovescia brutalmente l'ottimismo. Guardarlo oggi significa confrontarsi con la potenza di un cinema che non aveva paura del sentimento, che sapeva costruire cattedrali di emozione con una sincerità quasi spudorata. Un cinema che ci ricorda che, di fronte all’avanzare di un’oscurità che vuole zittire ogni voce, la cosa più coraggiosa che si possa fare, a volte, è semplicemente iniziare a cantare, partendo da Do, Re, Mi.

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