U-Boot 96
1981
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Regista
Un film claustrofobico questo “Das Boot” di Petersen tratto da un romanzo di Lothar Günther Buchheim. Un’opera che mantiene i riflettori puntati sulla vita di un equipaggio di sottomarino durante la Seconda Guerra Mondiale, ma lo fa con una profondità e una spietatezza che trascendono il mero resoconto bellico per toccare corde universali dell’esperienza umana sotto pressione. La claustrofobia non è qui un semplice espediente scenico, bensì un principio strutturale e psicologico: lo spazio angusto del sottomarino si fa metafora delle menti imprigionate dei suoi occupanti, dei loro sogni compressi, delle loro speranze soffocate. Petersen non si limita a mostrarci pareti metalliche, ma ci fa sentire il peso opprimente di migliaia di tonnellate d'acqua, il metallo che geme, l'aria viziata che si fa sempre più rarefatta, rendendo la pellicola un'esperienza sensoriale prima ancora che narrativa.
La cura maniacale per ogni dettaglio, per le emozioni inscatolate dei personaggi, per i dialoghi serrati e profondi, per il taglio antimilitarista della storia: tutto ciò fa di Das Boot un’opera assolutamente unica nel panorama del genere bellico. Quella maniacalità si traduce nella ricostruzione fedelissima di un U-Boot, realizzata con una meticolosità ossessiva che spinse il regista a commissionare un set praticamente identico all'originale, persino nelle vibrazioni e nei suoni, grazie anche alla consulenza di veri veterani di U-boat. Questo non è un mero esercizio di stile, ma un fondamento su cui poggiare l'autenticità di ogni respiro, ogni goccia di sudore. Le emozioni, appunto, non sono esibite, ma trapelano dalle fessure delle armature interiori, da sguardi stanchi e silenzi eloquenti. Il capitano, interpretato da un Jürgen Prochnow memorabile, incarna la disillusione e l'usura morale, un uomo la cui tempra è stata forgiata non dalla gloria, ma dalla cruda realtà del conflitto, distante anni luce dalla retorica eroica tipica del genere. I dialoghi, scarni ed essenziali, sono intrisi di una rassegnata ironia e di una saggezza brutale, rivelando le paure più recondite e i tentativi, spesso vani, di conservare un barlume di umanità in un contesto disumanizzante. Questo approccio profondamente critico e disincantato al conflitto è un marchio distintivo del cinema tedesco post-bellico, che ha saputo rileggere la propria storia senza edulcorazioni, ponendosi in netto contrasto con le narrazioni propagandistiche di altri paesi. "Das Boot" non celebra eroi né gesta gloriose; al contrario, espone la futilità e l'orrore intrinseco della guerra attraverso gli occhi di uomini comuni, intrappolati in un meccanismo più grande di loro.
La storia è quella di un sottomarino tedesco e del suo equipaggio impegnato in missioni intorno all’Inghilterra nel 1941. Le consegne del mezzo subacqueo sono di attaccare e distruggere i rifornimenti diretti in Gran Bretagna. Il mezzo navale fa base nel porto francese di La Rochelle, ma l’equipaggio trascorre lunghissimi mesi in mare aperto senza mai vedere la luce del sole. Questa privazione sensoriale, lungi dall'essere un mero dettaglio, diviene un elemento narrativo centrale, simbolo di una prigionia ben più profonda di quella fisica. L'assenza di luce naturale, la costante umidità, il freddo penetrante e il fetore persistente di gasolio, sudore e morte, sono elementi che erodono lentamente la psiche dei marinai, spingendoli ai limiti della sopportazione. Inseguimenti, ombre negli abissi, navi da affondare: tutto questo fa parte del loro orizzonte, e nient’altro. La routine della caccia, interrotta da momenti di terrore puro durante gli attacchi e le successive contromisure nemiche, crea un ritmo cardiaco che il film trasmette con maestria, quasi costringendo lo spettatore a trattenere il fiato assieme ai protagonisti. L'oceano, in "Das Boot", non è il romantico teatro di avventure, ma un'entità primordiale e indifferente, un cimitero liquido dove il destino di uomini e macchine è appeso a un filo sottilissimo.
Una grande impostazione registica rende molto coinvolgente l’intreccio narrativo che rimane cupo e asfissiante dall’inizio alla fine. Petersen, con una regia quasi documentaristica eppure intrinsecamente drammatica, utilizza la macchina da presa non solo per osservare, ma per immergere. I lunghi piani sequenza all'interno del sottomarino, che seguono i personaggi attraverso corridoi stretti e compartimenti soffocanti, creano un senso di immediata partecipazione e smarrimento. Ogni scricchiolio del metallo, ogni suono di profondità che esplode nelle vicinanze, non è un semplice effetto sonoro, ma un martello che batte sulle tempie dello spettatore, amplificando l'angoscia e la vulnerabilità di quei corpi stipati. Questo approccio sonoro, unito a una fotografia livida e crepuscolare, eleva il film ben oltre il semplice intrattenimento bellico, facendone quasi uno studio di psicologia collettiva sotto estrema coercizione.
Alcune scene apocalittiche rimangono impresse nella memoria: come il sottomarino che dopo aver affondato la nave nemica lascia i superstiti in mare al loro destino, lasciandosi alle spalle un oceano in fiamme. Questa immagine, di straziante bellezza e crudeltà, incapsula l'essenza moralmente ambigua del conflitto e la disumanizzazione che ne consegue. Non c'è trionfo in quella vittoria, solo l'eco gelido di vite sacrificate e la consapevolezza di una violenza che genera altra violenza, in un ciclo apparentemente infinito. È un momento che costringe lo spettatore a confrontarsi con la spietatezza della guerra, dove anche i "vincitori" sono segnati da un'incancellabile macchia. "Das Boot" è, in ultima analisi, un'elegia sulla perdita – la perdita di vite, certo, ma anche la perdita dell'innocenza, dell'umanità e della speranza, che si consuma lentamente negli abissi, dove ogni alba è un ricordo sbiadito e ogni respiro è un piccolo atto di resistenza contro il buio incombente. Un capolavoro che continua a risuonare, non come un'eco del passato, ma come un monito perenne.
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