Un Dollaro d'Onore
1959
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Regista
Per alcuni (come Quentin Tarantino) Rio Bravo di Howard Hawks è IL film western per antonomasia: un capolavoro di teatralità cinematografica in cui le tre unità aristoteliche danno vita ad un crescendo di tensione impalpabile, di ostilità chiusa fuori, di nemici invisibili tenuti a distanza da un manipolo di disperati. Ed è proprio nella rigorosa adesione a quella che potremmo definire una "teatralità da camera" che il film trova la sua forza più inusitata. La quasi totale osservanza dell'unità di luogo – confinando l'azione principalmente nell'ufficio dello sceriffo e nelle immediate vicinanze – e dell'unità di tempo, con la vicenda che si sviluppa nell'arco di pochi giorni di attesa estenuante, non è una limitazione, ma un espediente geniale. Essa amplifica la claustrofobia psicologica, forzando i personaggi a confrontarsi non solo con la minaccia esterna, ma soprattutto con le proprie fragilità interne e con le dinamiche interpersonali. Hawks, maestro della sottrazione, dimostra che la vera azione non risiede nel fragore degli spari, ma nella sottile alchimia che lega e disgrega un gruppo sotto pressione, trasformando il genere western da epica del paesaggio a dramma dell'anima.
La vicenda, assai scarna in verità, narra dell’improbo confronto tra lo sceriffo John T. Chance coadiuvato da tre squinternati aiutanti, e una banda di pistoleros decisi a liberare un collega dal carcere. Ma sotto questa semplicità narrativa si cela un'architettura tematica di rara complessità. Il film si erge, non a caso, come una monumentale replica al più acclamato e forse moralmente ambiguo Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinnemann. Laddove Gary Cooper, lo sceriffo Kane, implorava aiuto da una comunità codarda e indifferente, John T. Chance incarna la stoica professionalità Hawksiana: non si cerca l'aiuto, lo si accetta solo se offerto, e si affrontano i propri problemi con competenza e un codice d'onore inflessibile. Qui non c'è posto per la retorica dell'eroe solitario e sofferente; piuttosto, emerge la forza della coesione professionale e dell'amicizia virile.
Ambientato quasi interamente nell’ufficio dello sceriffo colpisce per la perfezione dei dialoghi, per la complessa architettura dei tempi di azione, per l’impareggiabile atmosfera di inquieto fatalismo che aleggia sulla narrazione. Ogni battuta, ogni pausa, ogni scambio di sguardi contribuisce a tessere una trama invisibile di tensione e comprensione reciproca. La sceneggiatura, cesellata da Leigh Brackett e Jules Furthman, eleva il chiacchiericcio quotidiano a forma d'arte, rivelando personalità, motivazioni e paure senza mai ricorrere a spiegazioni didascaliche. Pensiamo alla commovente parabola di Dude (Dean Martin), l'ex pistolero ridotto all'alcolismo, la cui lotta per la redenzione è il vero cuore pulsante del film. La sua vulnerabilità e la sua ostinazione nel voler riconquistare la propria dignità professionale, con l'aiuto discreto ma fermo di Chance, offrono una profonda riflessione sulla dipendenza, sull'amicizia e sulla possibilità di riscatto, ben lontana dai cliché dell'eroismo hollywoodiano.
Accanto a loro, il burbero e irascibile Stumpy (un magistrale Walter Brennan) fornisce il contrappunto comico e la voce della saggezza popolare, mentre il giovane, taciturno e letale Colorado (Ricky Nelson, sorprendentemente efficace nella sua aura di mistero) rappresenta la nuova generazione di professionisti, capaci e disincantati. E poi c'è Feathers (Angie Dickinson), una figura femminile di rara indipendenza e arguzia, che non è semplicemente un interesse amoroso, ma una forza destabilizzante e umanizzante per il taciturno Chance, capace di penetrare la sua corazza di riservatezza con intelligenza e una maliziosa ironia. Le loro schermaglie verbali sono un saggio di seduzione basata sull'acume e sulla parità intellettuale, un duello sottile che aggiunge strati di ricchezza alla psicologia del protagonista.
L'atmosfera di inquieto fatalismo, poi, non deriva da esplosioni o sparatorie continue, ma dalla costante presenza del pericolo appena oltre la porta, dalla consapevolezza che il destino pende su ciascuno e che l'attesa è essa stessa una tortura. È un film che insegna il valore dell'immobilità strategica, del saper aspettare, del gestire l'ansia collettiva con un mix di humour nero, cameratismo e lucida professionalità. Hawks orchestra tutto ciò con una fluidità e una naturalezza che pochi registi hanno mai eguagliato, creando un ritmo peculiare in cui l'azione è interrotta da momenti di canti (indimenticabile la sequenza musicale con Dean Martin e Ricky Nelson), scherzi e introspezioni, quasi a voler sottolineare la normalità che persiste persino sotto la minaccia più grave.
Rio Bravo non è solo un’architrave del cinema moderno d’azione, ma anche della figura dell’antieroe tout court. John T. Chance non è l'eroe senza macchia e senza paura; è un uomo solo, stanco, quasi rassegnato, che compie il suo dovere non per gloria, ma per un innato senso di responsabilità e di rigore etico. La sua è una forma di eroismo quotidiano, di resistenza silenziosa. Questa visione del professionista competente e riservato, che si fida del proprio mestiere e dei pochi fidati compagni, è il cuore dell'estetica hawksiana e ha lasciato un'impronta indelebile. La sua influenza è palese in opere successive che emulano la sua struttura di assedio in spazi ristretti, come il cult Distretto 13 - Le brigate della morte di John Carpenter, il cui debito nei confronti di Rio Bravo è esplicito e dichiarato. Un film che continua a risuonare, non solo per la sua perfezione formale, ma per la sua profonda e onesta esplorazione della condizione umana di fronte all'avversità.
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