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Un Tram che si chiama Desiderio

1951

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Regista

Elia Kazan traspone su pellicola lo struggente dramma teatrale di Tennessee Williams.

Ne esce un film possente e intenso, splendidamente interpretato e con un adattamento drammaturgico davvero all’altezza. L’opera si erge a monumento della drammaturgia americana del Novecento, un implacabile ritratto della condizione umana dove le fragili illusioni si scontrano con la brutalità ineludibile della realtà.

La storia è incentrata sulla figura di Blanche DuBois, una nevrotica donna del Sud, esponente di una civiltà crepuscolare e morente, che, fuggendo da un passato di scandali e disperazione, intreccerà il suo destino a quello della sorella Stella e del marito Stanley Kowalski. Questa dinamica a tre si traduce in un’anatomia delle passioni umane portata prima sul palcoscenico e poi sul grande schermo, che non muta assolutamente la cifra estetica e speculativa dell’opera. Anzi, il conflitto tra il mondo etereo e artificioso di Blanche, intessuto di menzogne e poesia decadente, e la rude, primordiale virilità di Stanley, icona di un’America post-bellica in piena ascesa e priva di fronzoli, acquista sul grande schermo una risonanza quasi mitologica. Williams, con la sua ineguagliabile maestria, dipinge un affresco della repressione sessuale e del desiderio proibito, del disfacimento mentale e della violenza latente, il tutto filtrato attraverso un naturalismo intriso di simbolismo lirico che Kazan riesce a cogliere in ogni sfumatura. La claustrofobia dell’appartamento dei Kowalski, un microcosmo asfissiante e pregno di umidità e sudore, diventa il teatro di una battaglia psicologica senza quartiere, un vero e proprio saggio freudiano sulle pulsioni più oscure dell’anima.

Notevole la capacità di Kazan di conservare inalterato il sapore prettamente teatrale dell’opera concepita per il palcoscenico, a cui il regista intelligentemente lascia inalterata la fluidità dialettica dei dialoghi e l’ambientazione quasi interamente in interno (fatto salvo per qualche scena in esterno girata a New Orleans). Ma la sua maestria va ben oltre la semplice fedeltà: Kazan, formatosi all’Actors Studio e maestro della nascente scuola del Metodo, impiega la macchina da presa non solo per documentare, ma per amplificare. L’uso espressionista delle luci e delle ombre, in debito con le tecniche del film noir, trasforma l’appartamento non solo in una prigione fisica ma in una trappola psicologica, dove l’atmosfera si fa sempre più oppressiva e il destino dei personaggi pare già segnato. I primi piani insistiti sui volti sudati e tesi, la fotografia cupa e contrastata di Harry Stradling Sr., e la colonna sonora jazzata e malinconica di Alex North (le cui composizioni per il film furono tra le prime nel cinema americano a incorporare significativamente elementi di jazz) contribuiscono a creare un’esperienza sensoriale che trascende la mera riproduzione teatrale. Questo è particolarmente evidente nella costruzione del personaggio di Stanley Kowalski, interpretato da un giovanissimo e dirompente Marlon Brando, la cui performance ruvida, viscerale e sfrontatamente sessuale ridefinì i canoni della mascolinità cinematografica. La sua presenza scenica, fatta di mugugni, posture animalesche e una sfrontatezza quasi brutale, fu un terremoto per l’epoca e influenzò generazioni di attori, elevando il “Metodo” a cifra stilistica dominante ad Hollywood.

Il rapporto tra piéce teatrale e versione cinematografica fu talmente stretto e vincolante che la produzione decise di assumere quasi per intero il cast della versione teatrale andata in scena a Broadway. Tuttavia, le rigorose norme del Codice Hays, l’insieme di direttive sulla censura cinematografica in vigore negli Stati Uniti, imposero tagli e modifiche significative rispetto all’originale dramma di Williams. Alcuni dei riferimenti più espliciti all’omosessualità del marito di Blanche, all’eccessiva promiscuità di quest’ultima, e soprattutto alla violenza sessuale finale perpetrata da Stanley, furono attenuati o lasciati all’interpretazione implicita, per non urtare la sensibilità del pubblico e della censura. Paradossalmente, queste costrizioni spinsero Kazan e gli attori a una maggiore sottigliezza, a comunicare attraverso sguardi, gesti e silenzi ciò che non poteva essere detto apertamente, amplificando così la tensione sotterranea e la carica drammatica del film.

Con l’eccellente eccezione di Jessica Tandy che a teatro interpretava Blanche e fu sostituita da Vivien Leigh, attrice di maggior richiamo mediatico grazie al successo planetario di Via col Vento. Questa sostituzione fu lungamente dibattuta, e l’attrice venne tuttavia considerata da alcuni, inizialmente, il punto debole e l’oggetto estraneo dell’opera. Tuttavia, nel corso degli anni il suo volto si attagliò a tal punto alle fattezze di quello di Blanche, incarnandone l’ossessione per la bellezza fugace, la fragilità mentale e la disperata ricerca di salvezza in un mondo che le era ostile. La sua interpretazione è un tour de force di lucidità e follia, una discesa agli inferi della mente che trova un’eco tragica nella sua stessa vita. La Leigh, notoriamente affetta da disturbi bipolari, si calò così profondamente nel personaggio che, fatalmente, l’interpretazione le fu grande causa di sofferenza e di problemi di sdoppiamento della personalità. La fragilità emotiva dell’attrice si fuse con quella del personaggio, conferendo alla sua Blanche un’autenticità dolorosa e indimenticabile, rendendola non solo una vittima delle circostanze, ma un simbolo universale della fragilità umana di fronte alla brutalità della vita, lasciando lo spettatore con l’amaro in bocca e la consapevolezza che, talvolta, la gentilezza degli estranei è l’unico rifugio in un mondo che ha smarrito ogni compassione.

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