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Un Tranquillo Weekend di Paura

1972

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Da un romanzo di James Dickey nasce un’opera avvincente e narrativamente ben congegnata che prende spunto dal viaggio di quattro amici che decidono di trascorrere un fine settimana su un lago a pescare e campeggiare. Un'ode apparente alla virilità avventurosa, al confronto con la natura selvaggia e purificatrice, si rivela invece un'implacabile discesa agli inferi, un'allegoria cruda della fragilità della civiltà umana. James Dickey, non solo l'autore dell'omonimo, fulminante romanzo, ma anche il lucidissimo sceneggiatore, intuisce la potenza cinematografica della sua prosa viscerale, creando una collisione perfetta tra la letteratura e la settima arte. Il suo romanzo, acclamato per la sua densità psicologica e la sua esplorazione del lato oscuro della psiche, trova nel film la sua controparte visiva più brutale e schietta.

La loro tranquilla vacanza si trasformerà in un calvario di morte e sofferenza grazie ad alcuni balordi della zona che li attaccano dopo che difendendosi da un tentativo di violenza uccidono uno di loro. Quel che inizia come una gita ricreativa, un'evasione dalla prigionia urbana, si muta con ferocia in un'odissea di terrore e degradazione. La violenza che si scatena non è di matrice urbana o sofisticata; è primordiale, inaspettata, brutale nella sua semplicità, un confronto diretto con la natura più selvaggia dell'uomo, risvegliata nel cuore di un'America dimenticata. La sequenza dell'aggressione sul fiume, lungi dall'essere mero shock, si imprime nella memoria come un monito agghiacciante sulla fragilità della civilizzazione e sulla sottile linea che separa l'uomo "civile" dalla bestia.

Un grande Burt Reynolds e un altrettanto grande John Boorman alla regia, veramente notevole nel rendere alla perfezione l’atmosfera di crescente inquietudine e straniamento che assume la vicenda via via che si dipana l’intreccio. Boorman non si limita a dirigere; intaglia un'esperienza sensoriale e psicologica. La sua regia è un tour de force di inquietudine, che trasforma il paesaggio rigoglioso degli Appalachi da sfondo pittoresco a personaggio minaccioso, un'entità primordiale che inghiotte e riflette la crudeltà degli uomini. La sua maestria nel dosare la tensione, nell'usare il silenzio assordante e i suoni della natura per amplificare il senso di isolamento, è palpabile in ogni fotogramma. Reynolds, nel ruolo di Lewis Medlock, il leader stoico e quasi darwiniano, si distacca dalla sua immagine di sex symbol per incarnare una mascolinità dura e vulnerabile, costretto a fare i conti con i limiti della sua presunta superiorità. Accanto a lui, un Jon Voight straordinariamente sensibile nei panni di Ed, l'uomo comune costretto a confrontarsi con l'impensabile; un Ned Beatty indimenticabile nella sua vulnerabilità straziante, e un Ronny Cox che incarna l'innocenza perduta. Il loro è un quartetto che esplora le sfumature della paura, della colpa e dell'istinto di sopravvivenza, dissezionando l'idea stessa di virilità e di cosa significhi essere "uomini" di fronte al caos. La pellicola si erge a testimonianza della capacità del cinema degli anni '70 di confrontarsi senza filtri con il lato oscuro della psiche umana e della società americana, un'epoca in cui la New Hollywood non temeva di sfidare le convenzioni e di esplorare le crepe del sogno americano.

Una scena memorabile su tutte: il duetto Banjo-Chitarra tra un ragazzo down della zona e Drew, il musicista del gruppo. I due si studiano da lontano mentre accarezzano le corde degli strumenti, poi la melodia diviene sempre più definita e più veloce per poi sfociare in un virtuosismo country. Non è solo un intermezzo musicale di ineffabile bellezza, ma un breve, fragilissimo ponte di connessione umana, un dialogo puro al di là delle parole e delle differenze culturali. In quel virtuosismo contagioso, così vibrante da diventare un successo discografico iconico, si condensa un istante di armonia quasi utopica, prima che la dissonanza della violenza infranga ogni possibile intesa, lasciando dietro di sé solo la desolazione e il ricordo di un'opportunità perduta di comprensione reciproca. È la calma prima della tempesta, la bellezza effimera prima della bestialità.

Un ultimo rimpianto per il titolo originale “Deliverance” tristemente mutato dal distributore italiano in un titolo buono forse per un film horror da cesto degli sconti. Ma il più grande tradimento, quello che forse più di ogni altro snatura la profondità tematica dell'opera, risiede proprio in questa scelta. L'etichetta generica, da horror di serie B, banalizza l'inquietante ambiguità e la risonanza filosofica del titolo originale, "Deliverance". Quest'ultimo non è una semplice scelta stilistica; è la chiave di volta dell'intero film. "Deliverance" può significare salvezza, liberazione, ma anche la fornitura di qualcosa, o persino l'atto di "partorire" un'esperienza. I protagonisti sono "liberati" dalla fragile patina della civilizzazione, "consegnati" a un'esperienza primordiale di terrore e sopravvivenza, ma anche "salvati" (o forse condannati) da un incontro che li costringe a confrontarsi con la propria capacità di brutalità. È la "consegna" a un destino ineluttabile, la "liberazione" delle proprie paure più recondite, e la "salvezza" (in un senso perverso) che deriva dal superamento dei limiti umani. Il titolo originale invita alla riflessione sulla natura della violenza, sulla fragilità dell'ordine sociale e sulla regressione a uno stato quasi animale, temi che risuonano con le inquietudini di un decennio che ha visto Hollywood esplorare il lato oscuro dell'America con una franchezza mai vista prima. Deliverance si inscrive perfettamente in quel filone di cinema "survivor" o "nature run amok" ma con una profondità psicologica che lo eleva al di sopra del mero genere, ponendolo accanto a opere come Cane di paglia di Peckinpah o la distopica visione di Arancia Meccanica di Kubrick, nel modo in cui tutti e tre interrogano la linea sottile tra civiltà e barbarie. Il fiume non è solo un ostacolo, ma un confine liquido, un Limbo che separa il mondo conosciuto dalla giungla della psiche, dove ogni uomo è solo con i propri istinti più nudi. Un viaggio che lascia cicatrici non solo sui corpi, ma soprattutto sull'anima, consegnando allo spettatore una verità scomoda sulla bestia che si cela in ognuno di noi, in attesa solo di essere scatenata.

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