Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Un uomo, una donna

1966

Vota questo film

Media: 4.50 / 5

(2 voti)

Un mantra ritmico, due sillabe ripetute come il battito cardiaco di un'ossessione nascente: chabadabada, chabadabada. Se l'intera opera di Claude Lelouch potesse essere distillata in un unico, ipnotico frammento sonoro, sarebbe questo. Ma liquidare "Un uomo, una donna" come il trionfo di una colonna sonora indimenticabile – quella firmata da Francis Lai, un carillon malinconico per cuori in convalescenza – sarebbe un errore di prospettiva, un'eresia critica. Il film del 1966 è molto più di un epifenomeno pop o di un manifesto sentimentale per la borghesia motorizzata degli anni Sessanta. È un sismografo dell'anima, una partitura visiva che registra le scosse di assestamento di due esistenze fratturate che tentano, con la goffaggine dei sopravvissuti, di combaciare di nuovo.

Siamo nel pieno dei Trente Glorieuses, il boom economico francese, eppure l'atmosfera che Lelouch cattura è eminentemente crepuscolare. La Nouvelle Vague ha già da qualche anno scardinato le porte del tempio cinematografico con la furia iconoclasta di un Godard o la cinefilia febbrile di un Truffaut. Lelouch, dal canto suo, compie un'operazione diversa, quasi un'eresia nella sua apparente semplicità: prende gli strumenti della rivoluzione – la camera a mano, la luce naturale, il montaggio a tratti sincopato – e li mette al servizio non della decostruzione, ma della ricostruzione emotiva. Se Godard usava il jump-cut per spezzare l'illusione, Lelouch lo impiega per mimare il singhiozzo di un ricordo. È la Nouvelle Vague addomesticata, privata della sua rabbia politica e intellettuale per diventare la sintassi di un neoromanticismo intimo e universale. Un'operazione di sintesi geniale che gli valse una Palma d'Oro e due Oscar, sdoganando un certo cinema d'autore presso il grande pubblico come nessuno era riuscito prima.

La trama è di una semplicità disarmante, quasi un haiku: un uomo, Jean-Louis (Jean-Louis Trintignant), e una donna, Anne (Anouk Aimée), entrambi vedovi, si incontrano una domenica piovosa a Deauville, davanti alla scuola dei rispettivi figli. Lui, pilota da corsa, porta ancora le cicatrici fisiche ed emotive di un incidente quasi fatale e la memoria della moglie suicida. Lei, segretaria di edizione, vive avvolta nel ricordo idealizzato del marito stuntman, morto sul set. La loro storia è un avvicinamento cauto, un ballo esitante sulla spiaggia deserta di una Normandia invernale, un paesaggio dell'anima che riflette perfettamente il loro stato interiore: magnifico, ma freddo e spazzato dal vento del passato.

È proprio il trattamento del passato a elevare il film dalla cronaca sentimentale al saggio sulla memoria. Lelouch, spinto tanto da necessità economiche quanto da un'intuizione folgorante, gira alternando pellicola a colori e in bianco e nero. L'aneddoto produttivo vuole che il budget risicato lo costrinse a usare stock di pellicola diversi, ma il risultato è una delle cifre stilistiche più potenti del decennio. Il presente, fragile, incerto, intriso della speranza di un nuovo inizio, è a colori. I ricordi, invece, sono un gorgo monocromatico o virato seppia, bolle di tempo che risalgono in superficie senza preavviso. Non sono flashback didascalici, ma intrusioni, fantasmi che si materializzano nel bel mezzo di una conversazione. Quando Anne parla del marito, lo schermo si desatura e noi vediamo non ciò che lei racconta, ma l'essenza mitologica del suo ricordo: un amore perfetto, solare, quasi una pubblicità della felicità. La memoria, qui, non è un archivio fedele, ma un'opera di curatela continua, un'agiografia che il presente non può sperare di eguagliare. In questo, Lelouch si rivela un proustiano inaspettato. Il "chabadabada" non è altro che la madeleine sonora che innesca la macchina del tempo involontaria, e l'intera narrazione è un tentativo di venire a patti con il "tempo perduto" per poter abitare il "tempo ritrovato".

La performance dei due protagonisti è un capolavoro di sottrazione. Trintignant, con la sua maschera di timidezza e dolore contenuto, incarna un uomo che ha imparato a diffidare della felicità. La sua passione per la velocità e le corse (il Rally di Montecarlo è una sequenza straordinaria, un balletto meccanico che funge da controcanto virile all'intimità della coppia) non è esibizione di machismo, ma una forma di controllo sul caos, l'unico ambito in cui il rischio è calcolabile, a differenza di quello del cuore. Anouk Aimée è di una bellezza quasi spettrale, la sua eleganza è una corazza. È lei il vero motore immobile del dramma: è il suo attaccamento al fantasma del marito a creare il vero ostacolo, il vero conflitto del film. La celebre scena nella camera d'albergo, dopo la loro prima notte insieme, è lancinante. Il sesso, anziché unirli, evoca in lei il ricordo del marito defunto con una violenza tale da costringerla alla fuga. È un momento di una modernità psicologica sconcertante: l'amore non è la cura, ma ciò che riapre la ferita.

Se si volesse osare un parallelo, si potrebbe accostare "Un uomo, una donna" a "Hiroshima mon amour" di Alain Resnais. Entrambi i film mettono in scena due anime segnate da un trauma incancellabile che tentano una connessione effimera. Ma laddove Resnais e Duras scelgono la via dell'astrazione intellettuale, della parola poetica che seziona il dolore con la precisione di un bisturi, Lelouch sceglie la via del sensoriale, dell'impressionismo. La sua macchina da presa non analizza, ma accarezza. I lunghi zoom, i fuochi morbidi, le corse sulla spiaggia riprese con il teleobiettivo creano un senso di distanza e, al contempo, di intimità voyeuristica. È come se spiassimo questi due esseri fragili attraverso un velo di pioggia o di nebbia. L'approccio di Lelouch è meno cerebrale e più epidermico, ma non per questo meno profondo. È un cinema che non vuole spiegare il sentimento, ma registrarne la vibrazione.

E poi c'è l'auto, la Ford Mustang bianca. Non è un semplice mezzo di trasporto, ma lo spazio liminale in cui la loro relazione può esistere. È un guscio protettivo che li isola dal mondo esterno, un confessionale laico dove le parole fluiscono più libere. È il simbolo di una modernità che corre veloce, in stridente contrasto con la lentezza con cui i due protagonisti elaborano il loro lutto. La corsa notturna di Jean-Louis da Montecarlo a Parigi per raggiungere Anne non è solo un gesto romantico; è un atto di volontà, una sfida lanciata al tempo e alla distanza, un tentativo di superare, letteralmente, il passato per conquistare il presente. Il finale, con il loro abbraccio muto e incerto sulla banchina della stazione, lascia tutto in sospeso. Non c'è una vera risoluzione, solo l'accettazione che l'amore, dopo il lutto, non è una cancellazione, ma una difficile, dolorosa sovrapposizione.

"Un uomo, una donna" è un'opera che ha cristallizzato un'epoca, diventando esso stesso un oggetto di memoria collettiva, un reperto archeologico di un certo modo di intendere il romanticismo. La sua influenza è carsica e si estende ben oltre il cinema, avendo plasmato decenni di pubblicità, video musicali e immaginario popolare. Potremmo vederlo oggi e trovarlo ingenuo, forse persino stucchevole in certi suoi slanci. Ma sarebbe come criticare un quadro di Monet per non avere la nitidezza di una fotografia. La sua forza non risiede nel realismo, ma nella sua capacità di catturare un'impressione, la luce fugace di un'emozione. È una melodia visiva sulla difficoltà e la necessità di ricominciare, un promemoria del fatto che le storie d'amore più vere non sono quelle che iniziano con un colpo di fulmine, ma quelle che si costruiscono, con pazienza e coraggio, sulle rovine di quelle precedenti. Chabadabada.

Paese

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7

Commenti

Loading comments...