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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Un volto nella folla

1957

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Regista

Un film può essere uno specchio. Oppure, più di rado, una sfera di cristallo. Un volto nella folla di Elia Kazan non è né l’uno né l’altra cosa: è una vivisezione praticata su un corpo ancora vivo, il nostro, eseguita con decenni di anticipo, con la lucidità spietata di un chirurgo che opera su un paziente non ancora nato. Vederlo oggi non è un esercizio di archeologia cinematografica; è un atto di spettrologia, un dialogo con un fantasma che ci conosce meglio di quanto noi conosciamo noi stessi. Un fantasma che ci indica la cicatrice, prima ancora che la ferita venga inferta.

La genesi di Larry "Lonesome" Rhodes, il demone folk emerso dal fango dell'Arkansas, è un patto faustiano stipulato non con il diavolo, ma con l'obiettivo di una telecamera. Kazan e lo sceneggiatore Budd Schulberg, già compagni d'arme nel tellurico Fronte del porto, capiscono con terrificante preveggenza che la televisione, quel nuovo focolare domestico degli anni '50, non è una finestra sul mondo, ma un acceleratore di particelle per l'ego umano. Marcia Jeffries (una Patricia Neal dalla statura morale e drammatica immensa) non scopre semplicemente un talento grezzo in una prigione di provincia. No, lei è una demiurga involontaria, una Dottoressa Frankenstein dell’etere che assembla un mostro usando i pezzi migliori dell'anima americana: l'autenticità rurale, l'umorismo da bar, la saggezza del "buon senso". Gli dà una chitarra, un microfono, e lo scatena sul mondo.

Ciò che rende la performance di Andy Griffith così sconvolgente, un buco nero nella storia della recitazione, è il suo essere la negazione cosmica di tutto ciò che l'attore sarebbe diventato. L'America lo avrebbe amato come il saggio e pacato sceriffo Andy Taylor di Mayberry, l'incarnazione della decenza di una piccola città. Ma qui, in questo film, Griffith è una supernova di carisma maligno. Il suo sorriso non rassicura, sbrana. La sua risata non è contagiosa, è un'infezione. Kazan lo riprende in primissimi piani che violano ogni distanza di sicurezza, costringendoci a guardare nell'abisso di quegli occhi che promettono comprensione e nascondono un vuoto pneumatico, un'insaziabile fame di adorazione. Rhodes non ha un'ideologia, non ha un messaggio; lui è il messaggio. Un simulacro di autenticità così perfetto da diventare più reale del reale.

Il film è una parabola spietata sulla confusione tra popolarità e potere, tra intrattenimento e influenza. Lonesome Rhodes non vende solo materassi o pillole energetiche; vende se stesso, e attraverso se stesso, vende un'intera visione del mondo. La sua ascesa da cantante di contea a "consigliere filosofico" di un candidato presidenziale non è una forzatura satirica, è una progressione logica. Kazan e Schulberg, entrambi figure segnate dalle ambiguità e dai tradimenti dell'era maccartista (la loro testimonianza davanti alla Commissione per le attività antiamericane è un'ombra lunga che si proietta su tutta la loro opera), conoscono intimamente la meccanica della performance pubblica e la malleabilità della "verità". Sanno che un uomo capace di convincere milioni di casalinghe a comprare un prodotto può, con la stessa facilità, convincerle a comprare un'idea, un uomo, un futuro. La sequenza in cui Rhodes, dal suo pulpito catodico, trasforma un candidato presidenziale rigido e intellettuale in un personaggio "alla mano" è una lezione di comunicazione politica che farebbe impallidire qualsiasi spin doctor contemporaneo. È la vittoria del pathos sul logos, dello spettacolo sulla sostanza.

Si potrebbe tracciare una linea diretta da Lonesome Rhodes a Howard Beale, il profeta pazzo di Quinto Potere di Sidney Lumet. Ma mentre Beale è una figura tragica, un uomo che impazzisce per un'epifania di lucidità, Rhodes non ha nessuna epifania. È un vuoto che si riempie del rumore che gli altri vogliono sentire. Non è un Prometeo che ruba il fuoco agli dèi; è un Golem di fango e onde radio, animato dall'adorazione della folla che lui stesso disprezza segretamente. La sua tragedia non è la consapevolezza, ma la sua totale assenza. È più vicino al Kurtz di Cuore di tenebra che a un eroe shakespeariano: un uomo che si è spinto così a fondo nel deserto (in questo caso, un deserto di vanità mediatiche) da diventare un dio per i selvaggi, salvo poi scoprire che il suo regno è costruito su un palco vuoto.

Il contesto socio-culturale è fondamentale. L'America di Eisenhower è una nazione che cova sotto la cenere della prosperità un'ansia profonda. La Guerra Fredda, la paranoia atomica, la nascita della società dei consumi di massa. La televisione diventa il grande sedativo, il narratore unico. Kazan intuisce che questo nuovo medium non si limita a riflettere la cultura, la plasma attivamente. Crea bisogni, modella opinioni, costruisce idoli dal nulla. La folla del titolo non è solo quella che acclama Rhodes negli stadi, ma è la massa atomizzata di individui solitari, seduti nel buio dei loro salotti, che cercano in quel volto sullo schermo una connessione, una guida, un senso di appartenenza. Rhodes non li unisce in una comunità, li lega a sé in un culto della personalità.

La sua caduta, innescata da un microfono lasciato accidentalmente aperto, è tanto rapida quanto la sua ascesa, ed è forse il dettaglio più profetico e agghiacciante del film. Non è un errore politico a distruggerlo, né uno scandalo. È la rottura dell'incantesimo. È la rivelazione che l'uomo "del popolo" considera il suo popolo un ammasso di "idioti, scimmie e imbecilli". È il momento in cui il medium, il suo creatore, diventa il suo boia. Il dio catodico viene detronizzato non da un rivale, ma da un banale errore tecnico. La sua intimità con il pubblico, la sua più grande forza, si rivela la sua vulnerabilità fatale. La maschera cade, e dietro non c'è un mostro, ma qualcosa di peggio: il nulla.

La scena finale è un capolavoro di desolazione espressionista. Rhodes, solo nel suo attico-mausoleo a Manhattan, un re Lear che urla contro una tempesta di silenzio, è ossessionato dal suono di una macchina per gli applausi, l'eco meccanica e vuota dell'adorazione che ha perduto. È un'immagine potente quasi quanto la slitta "Rosebud" di Kane, un simbolo altrettanto definitivo di un'anima svuotata dal successo. Ma se la tragedia di Kane è quella di un uomo che aveva tutto e ha perso se stesso, la tragedia di Rhodes è quella di un uomo che non era nulla e ha quasi conquistato tutto, per poi tornare a essere esattamente ciò che era: un volto vuoto, perso in una folla di fantasmi elettronici.

Un volto nella folla non è un monito; è una diagnosi. Non ci dice cosa potrebbe accadere, ma svela il codice genetico di ciò che sta già accadendo, oggi, in ogni feed social, in ogni reality show, in ogni campagna elettorale costruita sull'autenticità performativa. L'eredità di Lonesome Rhodes non è confinata in una pellicola in bianco e nero del 1957. È viva e vegeta, ha imparato a usare i filtri, a scrivere in 280 caratteri e a monetizzare ogni frammento della propria anima. E la folla, la nostra folla, è ancora lì, davanti a mille schermi, in cerca di un volto che le somigli, pronta ad amarlo, a seguirlo e, forse, a essere divorata.

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