Una pallottola per Roy
1941
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Regista
Le montagne non giudicano. Immobili e silenziose, sono testimoni tellurici dello scorrere del tempo, monumenti eretti dalla natura a un'eternità che all'uomo è preclusa. E in cima a una di queste, nella Sierra Nevada, finisce la sua corsa Roy Earle, l'ultimo dei grandi gangster, un fantasma del decennio precedente che si aggira in un'America che lo ha già dimenticato. Una pallottola per Roy (High Sierra, 1941) di Raoul Walsh non è semplicemente un gangster movie; è il suo crepuscolare, malinconico canto funebre. È l'epitaffio di un genere inciso sulla roccia, un western esistenziale travestito da noir, il punto di non ritorno in cui l'archetipo criminale degli anni '30, tracotante e affamato di potere, si evolve nel tormentato antieroe degli anni '40, consapevole della propria condanna.
Roy Earle, a cui un Humphrey Bogart finalmente scatenato dona una stanchezza granitica e una vulnerabilità celata sotto strati di cinismo, è un anacronismo vivente. Appena uscito di prigione grazie a una grazia ottenuta con la corruzione, si ritrova in un mondo che non riconosce più. I giovani criminali che lo affiancano per l'ultimo, grande colpo sono pivelli nervosi e inaffidabili, privi di quel codice d'onore – per quanto distorto – che definiva la sua generazione. Roy è un dinosauro che osserva la cometa dell'inevitabile estinzione. Il suo soprannome, "Mad Dog" Earle, è un'eco lontana, un brand che non lo rappresenta più. È un Golem di fango e leggenda, costruito dalla stampa e dalla paura, ma la cui anima è ormai erosa dal tempo e dalla solitudine.
La sceneggiatura, firmata da John Huston e W.R. Burnett (autore del romanzo da cui è tratta, e nume tutelare dell'hardboiled con opere come Piccolo Cesare), compie un'operazione di geniale dislocazione. Strappa il gangster dal suo habitat naturale – i vicoli umidi e le bische fumose della metropoli – e lo proietta negli spazi sconfinati e quasi metafisici della California. Questa scelta non è puramente estetica; è una dichiarazione di intenti. La città, con le sue regole artificiali e la sua corruzione sistemica, era il regno dove gangster come Rico Bandello o Tony Camonte potevano prosperare. La natura, invece, con la sua maestosa indifferenza, ne espone la piccolezza, la finitezza. La Sierra Nevada diventa per Roy quello che la Monument Valley è per i cowboy di John Ford: un palcoscenico sublime e terribile dove si consuma il dramma dell'individuo contro il destino. La montagna è il suo Moby Dick, un'entità primordiale che lo attira e che diventerà la sua tomba monumentale.
Il fatalismo impregna ogni fotogramma del film. Roy è un uomo in trappola fin dalla prima scena, e non solo perché è un criminale braccato. È prigioniero del suo passato, della sua reputazione e, soprattutto, di un barlume di romanticismo che ne segnerà la rovina. La sua ossessione per Velma (Joan Leslie), la ragazza con il piede torto, non è amore, ma la disperata proiezione di un'idea di purezza e redenzione. Roy crede di poter "comprare" una vita normale, di poter lavare via i suoi peccati finanziando l'operazione di Velma, come un moderno cavaliere che salva la damigella. Ma in questo universo, che già odora di noir, l'idealismo è la più fatale delle debolezze. La guarigione di Velma non porta alla gratitudine, ma al suo allontanamento. La "normalità" a cui lei accede la rende estranea al mondo di Roy, che viene così respinto da quello stesso idillio che ha cercato di costruire. È un contrappunto crudele e perfetto: l'unica persona che lo capisce veramente è Marie (una straordinaria Ida Lupino), una "donna perduta" come lui, un'anima randagia che riconosce nel suo sguardo la stessa condanna. Marie non si illude, non cerca redenzione; cerca solo un compagno per affrontare l'oscurità.
È impossibile parlare di Una pallottola per Roy senza celebrare la nascita di una stella. Fino a quel momento, Humphrey Bogart era stato un eccellente caratterista, spesso relegato a ruoli di villain secondario. George Raft, prima scelta per la parte, la rifiutò, convinto che il protagonista morisse alla fine e che non fosse un ruolo da star. Fu la fortuna di Bogart e del cinema intero. In Roy Earle, Bogart trovò il crogiolo in cui fondere la durezza dei suoi gangster precedenti con una nuova, profonda malinconia. Il suo volto divenne una maschera di stanchezza esistenziale, la sua voce roca il veicolo di un disincanto che era quasi filosofico. Non è un caso che, subito dopo, Huston lo vorrà per il ruolo di Sam Spade ne Il mistero del falco. Roy Earle è l'anello di congiunzione, il prototipo dell'antieroe bogartiano: l'uomo che ha visto tutto, che non si fida di nessuno, ma che, sotto la corazza, si aggrappa a un codice personale infrangibile, anche se questo significa andare incontro alla morte.
Walsh dirige con la sua tipica energia maschia e priva di fronzoli, ma qui c'è una sensibilità inedita. La sequenza dell'inseguimento finale lungo i tornanti della montagna è un pezzo di cinema di vertiginosa potenza, un balletto meccanico di auto e proiettili che culmina in una tragedia quasi greca. Roy, asserragliato sulla cima come un re decaduto nel suo ultimo bastione, viene abbattuto da un cecchino, un nemico invisibile e impersonale che rappresenta la Legge, la Società, il Destino stesso. La sua morte non è gloriosa. È secca, brutale. Ma nel caos che segue, c'è un momento di pura poesia cinematografica. Mentre la polizia e i giornalisti si accalcano, Marie riesce a superare il cordone. Qualcuno le chiede cosa significasse l'ultimo grido di Roy. E lei, con le lacrime agli occhi, risponde: "Vuol dire che è libero".
La libertà, per Roy Earle, non era sfuggire alla polizia. Era evadere dalla prigione della propria identità, dal mito di "Mad Dog" che lo perseguitava. In questo senso, la figura più importante del film potrebbe non essere umana. È Pard, il cagnolino che Roy adotta e che gli è fedele fino all'ultimo. Nel romanzo di Burnett, c'è una vecchia superstizione criminale secondo cui un cane che ti si affeziona porta sfortuna, perché la sua anima pura non può sopportare il male e finisce per condannarti. Nel film, Pard è l'unico essere che offre a Roy un affetto incondizionato, privo di giudizio. È il testimone silenzioso della sua umanità residua. E quando, dopo la morte del padrone, si accuccia tristemente accanto a Marie, il cerchio si chiude. Le due anime che hanno amato Roy Earle per quello che era, e non per quello che rappresentava, sono unite nel lutto.
Una pallottola per Roy è un film liminare, un'opera che si erge sul confine tra due epoche del cinema e della società americana. Chiude i conti con l'epopea gangsteristica e spalanca le porte al disincanto del dopoguerra. Roy Earle non è Al Capone; è più vicino a un eroe di Hemingway, un uomo che affronta la fine con una sorta di stoica dignità, consapevole che il mondo per cui combatteva non esiste più. Il suo grido finale, che echeggia tra le vette della Sierra, non è solo il rantolo di un uomo che muore, ma l'urlo di un'intera era che tramonta, lasciando dietro di sé solo il silenzio eterno e indifferente delle montagne.
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