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Una Pura Formalità

1994

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Una serrata battaglia dialogica, uno scrittore smemorato, un poliziotto arguto, il nulla della notte. Questo esordio folgorante ci precipita immediatamente in un reame dove la realtà è un dato fluido, la memoria un'entità elusiva, e la verità un miraggio cangiante. Non siamo di fronte a un mero procedimento investigativo, bensì a una profonda meditazione sull'identità e la colpevolezza, un'indagine che scava molto più a fondo dei fatti nudi e crudi.

Un film che è una sorta di manifesto teatrale, un’opera oscura in cui dominano due elementi: la maestria degli interpreti e la tortuosa narrazione che si dipana attraverso i flashback che affiorano come stelle nella notte. Questa teatralità non è una semplice scelta stilistica; è una strategia narrativa deliberata, confinando lo spettatore in un claustrofobico "chamber drama" dove l'unica azione è quella psicologica e interiore. Si potrebbe quasi percepire l'eco di Strindberg o, per certi versi, di Beckett, non per un nichilismo palese, ma per la loro capacità di svelare l'abisso umano attraverso la potenza della parola e l'immobilità scenica. L'ambiente unico, una stazione di polizia remota e senza tempo, quasi disconnessa dal mondo esterno, diventa un Limbo metafisico, un crocevia tra il mondo dei vivi e quello dei morti, della memoria e dell'oblio, dove il tempo stesso sembra perdere la sua linearità. La "tortuosa narrazione" si configura come un esercizio di archeologia della mente, dove ogni flashback non è una semplice rivelazione, ma un frammento di un mosaico rotto, la cui ricomposizione si rivela dolorosamente ambigua, sfidando la stessa nozione di una verità oggettiva. Questi lampi mnestici non illuminano, ma piuttosto intorbidiscono, come fari nella nebbia, rendendo l'intera struttura un palinsesto di ricordi incerti e verità negate, un'inquietante danza tra il dire e il non detto, il mostrare e il celare.

Onoff, uno scrittore schivo e misantropo, viene fermato durante la notte da una pattuglia di polizia e condotto in evidente stato confusionale in caserma per essere interrogato. Il suo stesso nome, "Onoff," evoca una bipolarità intrinseca, una personalità che si accende e si spegne, affiora e si nega, perfettamente consona al suo ruolo di creatore e di recluso. L'incidente notturno non è un mero pretesto narrativo, ma l'innesco di un'odissea interiore, un viaggio agli inferi della psiche che lo costringerà a confrontarsi con i propri fantasmi e le proprie omissioni.

Il commissario inizierà un conflitto dialettico con l’uomo, una contrapposizione permeata di metafore sussurrate e fatti indicibili, fino a denudare un uomo e la sua storia. Non è un interrogatorio tradizionale, bensì una sorta di sessione psicoanalitica coatta, una maieutica Socratica condotta con la precisione di un bisturi chirurgico. Il commissario non cerca semplicemente prove incriminanti, ma l'anima di Onoff, la sua essenza più recondita, come un investigatore dell'essere più che del fare. Le "metafore sussurrate" sono i grimaldelli per scardinare le difese di uno spirito tormentato, allusioni a un passato che riemerge frammento dopo frammento, intessendo una rete di colpa, negazione e rimorso. È un duello verbale in cui la verità non è un dato di fatto preesistente, ma una conquista dolorosa, un processo catartico che smonta strato dopo strato l'identità costruita, rivelando le "macerie" che si annidano sotto la superficie della celebrità letteraria.

Un Tornatore in stato di grazia restituisce perfettamente l’atmosfera onirica della vicenda, quasi un affannoso disperato tentativo di ricostruire le macerie di un sogno scivolato via nella veglia mattutina. L'onirico in Tornatore non è qui un mero abbellimento stilistico, ma la chiave di accesso a una realtà più profonda, quella del subconscio, dove i confini tra ricordo e invenzione si assottigliano pericolosamente. A differenza di opere più solari e nostalgiche come "Nuovo Cinema Paradiso", dove la memoria è veicolo di redenzione e affettuoso rimpianto, qui la memoria è un labirinto, un luogo di tormento e autoinganno, che intrappola e soffoca. La regia è tesa, misurata, quasi ascetica, concentrata sui volti, sui gesti minimi, sugli sguardi che si incrociano o si sfuggono, creando una tensione palpabile che non ha bisogno di colpi di scena esterni per mantenere lo spettatore avvinto. Ogni inquadratura è carica di significato, ogni silenzio è eloquente, contribuendo a un'atmosfera sospesa e claustrofobica che amplifica l'angoscia esistenziale dei personaggi. La fotografia, giocata su tonalità fredde e un chiaroscuro denso, quasi pittorico, avvolge la scena in una cappa di mistero e malinconia, evocando l'isolamento e la disperazione che pervadono l'animo di Onoff.

Meravigliosi i due interpreti, Polanski con la sua sobria razionalità e la voglia di penetrare quel muro di parole, Depardieu in un ruolo camaleontico dove il suo personaggio assume la cangiante forma di una multipla personalità. La loro performance è un autentico tour de force, un duello attoriale di rara intensità e precisione. Polanski, con la sua presenza scabra ma autorevole, incarna una sorta di figura archetipica del giudizio, un Caronte moderno che guida Onoff attraverso il suo inferno personale con una calma quasi imperturbabile. La sua razionalità non è fredda, ma permeata di una stanca saggezza, quasi una comprensione empatica del baratro umano, data forse da una vita di esperienze complesse e di attraversamenti di frontiere esistenziali. Depardieu, dall'altro lato, è un caleidoscopio di emozioni, capace di passare dalla furia alla più arrendevole sottomissione, dalla negazione più ostinata alla confessione più lacerante con una fluidità disarmante. La sua metamorfosi fisica e psicologica, il suo viso che si contrae e si rilassa, il suo corpo che sembra implodere sotto il peso del rimorso, sono la materializzazione visibile di quella "multipla personalità" che non è una semplice patologia, ma l'espressione di un'identità frammentata dal trauma e dalla menzogna. Il loro scambio è una coreografia di nervi e intelletto, un dialogo che è musica e tortura al tempo stesso, che rivela la profondità non solo dei personaggi ma della condizione umana stessa, nella sua fragilità e nella sua infinita complessità.

In questo senso significativa la sequenza in cui Onoff telefona alla propria donna in piedi davanti ad una finestra sotto gli occhi del commissario e del suo attendente: la donna pare non sentirlo mentre Onoff la invoca disperatamente. Questa scena, nella sua straziante semplicità e nel suo impatto visivo e sonoro, è un manifesto dell'incomunicabilità, non solo come assenza di dialogo, ma come impossibilità radicale di connessione, un grido nel vuoto che non trova eco. Simboleggia la solitudine ultima dell'individuo di fronte al proprio destino, all'impossibilità di condividere il proprio fardello più intimo, sia esso colpa inconfessabile o dolore insostenibile. È una metafora potentissima della distanza incolmabile tra sé e l'altro, tra il proprio vissuto interiore e la percezione esterna, tra il ricordo e la sua risonanza nel presente. L'invisibilità o inudibilità della donna al di là del filo non è solo un artificio narrativo, ma un simbolo crudo della disconnessione che affligge Onoff, un artista che ha perso il contatto non solo con il mondo e i suoi affetti, ma forse anche con la sua stessa ispirazione, e la sua ultima possibilità di redenzione e pace.

Un grumo di incomunicabilità che si riverbera in tutta la storia, elevandosi a tema centrale e universale. "Una Pura Formalità" non è solo un film sulla memoria o sulla colpa, ma sull'ontologia dell'essere e sulla fatica epistemologica di comprendere la realtà, propria e altrui. Il titolo stesso, enigmatico e profondamente ironico, invita a una riflessione sul significato ultimo di ciò che viviamo. È forse l'interrogatorio la "pura formalità", un rito necessario e coercitivo per svelare una verità che è già lì, invisibile agli occhi superficiali? O è la vita stessa, con le sue convenzioni e i suoi riti sociali, la vera formalità dietro cui si nascondono drammi indicibili e anime spezzate? Tornatore ci lascia con queste domande, con l'eco di un'ultima, disperata invocazione che si perde nel silenzio, e la consapevolezza che alcune verità, per quanto svelate, rimangono inafferrabili, pure formalità di un dramma interiore che non smette mai di pulsare. Un'opera che, a distanza di anni, continua a riverberare con la forza di un classico, invitandoci a scendere negli abissi della coscienza umana, dove il confine tra realtà e finzione, tra colpa e innocenza, è più sottile di quanto osiamo immaginare.

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