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Punto Zero

1971

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Kowalski è un fulmine in occhiali scuri e basette che attraversa gli States a bordo di una Dodge Challenger a velocità forsennata. Un’icona su ruote, bianca come una scheggia impazzita nel deserto rovente, emblema tangibile di un’anelata, quasi disperata, libertà.

Per scommessa deve arrivare a San Francisco in meno di 15 ore partendo dal Colorado, dove ha fatto il pieno di benzina e di anfetamine. Ma al di là della scommessa in sé, ciò che muove Kowalski è qualcosa di più profondo, un’urgenza esistenziale che lo spinge ai margini di ogni convenzione. Ex-poliziotto, ex-pilota di corse, ex-soldato in Vietnam, la sua non è una ribellione ideologica ma una fuga catartica da un mondo che lo ha disilluso, una ricerca di oblio o di un’ultima, gloriosa scarica di adrenalina prima della fine. La sua Dodge non è solo un mezzo di trasporto, ma un’estensione della sua volontà, un proiettile scagliato contro l’ordine costituito e, forse, contro se stesso.

In questo breve lasso di tempo Kowalski, uomo-ombra dalla cui figura trapelano solo sfuggenti tracce di un passato tormentato, si trasformerà in un modello per alcuni, e una seria minaccia alla sicurezza nazionale per altri. Il suo passaggio è un rombo che spezza il silenzio delle autostrade americane, un segnale che le autorità, in un clima di crescente paranoia post-Vietnam, non possono permettersi di ignorare. La sua corsa diventa un’epopea mediatica, amplificata e distorta dalle voci radiofoniche che lo trasformano in un simbolo vivente, un moderno Sisifo che spinge la sua roccia a 200 all’ora verso un orizzonte indefinito.

Un piccolo grande B Movie che è divenuto un caposaldo del genere Exploitation, venerato da generazioni di cineasti (Tarantino lo omaggerà in “Grindhouse – a prova di morte” utilizzando lo stesso modello di auto). Ma sarebbe riduttivo confinarlo alla sola etichetta di "exploitation", benché la sua matrice indipendente e il suo focus sull'azione cruda ne facciano parte. Punto Zero (originale Vanishing Point) è, in realtà, una parabola esistenziale intrisa di malinconia beat, una pellicola che, sotto l'apparente semplicità della trama, cela una profonda meditazione sulla libertà, sul destino e sull'identità in un'America lacerata. La regia di Richard C. Sarafian, tesa ed essenziale, accentua il senso di urgenza e solitudine, trasformando i vasti paesaggi del deserto in un desolato palcoscenico per un dramma interiore.

Il film ripropone il mito assoluto della libertà da ogni vincolo e da ogni pastoia, una sorta di Easy Rider su quattro ruote. Ma le analogie si esauriscono presto, lasciando emergere differenze sostanziali. Se i protagonisti di Easy Rider cercavano una comunità, un’alternativa, un approdo nell’utopia hippie, a Kowalski non interessa essere un eroe né tantomeno un modello della controcultura beat, a Kowalski interessa soltanto arrivare in tempo a San Francisco e prendersi una sbronza come si deve. La sua è una ribellione solipsistica, non comunitaria; un atto di sfida non verso un ideale, ma contro ogni residuo di speranza. La sua "san Francisco" non è un Eden, ma un limite, un punto zero oltre il quale non c'è più nulla da raggiungere.

Un uomo che suo malgrado diviene icona di ribellione da ogni vincolo istituzionale e da ogni norma che restringa la libertà d’espressione. Questa involontaria mitizzazione è sapientemente orchestrata dalla figura del DJ cieco Super Soul, il quale, dalla sua cabina radio, funge da oracolo e cantore delle gesta di Kowalski, amplificandone la leggenda e trasformandolo in un moderno messia per le anime inquiete sparse per il paese. Super Soul è la voce della controcultura, il profeta del deserto radiofonico che, con le sue parabole bibliche e la sua musica blues-rock, eleva la fuga di Kowalski a gesto epico, quasi un sacrificio pagano sull’altare della libertà individuale. È attraverso i suoi commenti che il film acquisisce una dimensione quasi mistica, elevando una semplice corsa in auto a metafora della condizione umana, della ribellione contro un fato ineluttabile.

L'uso della musica, una colonna sonora sapientemente intrecciata di brani country, blues e rock, non è un mero accompagnamento, ma un elemento narrativo fondamentale che scandisce il ritmo della fuga e ne amplifica la risonanza emotiva e politica. Le canzoni diventano la voce interiore di Kowalski e la colonna sonora di un'epoca di profonda disillusione.

Un’opera rivoluzionaria contro ogni genere di omologazione, Punto Zero si colloca al fianco di altre gemme del cinema americano degli anni '70 come Two-Lane Blacktop e Duel, pur distinguendosi per la sua inconfondibile vena di disperazione eroica. Non è solo un road movie, ma un’allegoria della fine di un’epoca, della disintegrazione del sogno americano e dell’ultima, folle, corsa verso un orizzonte che svanisce, proprio come il "punto zero" del titolo, un miraggio sulla strada che conduce all'annientamento finale. Il suo finale, crudo e senza compromessi, è la summa di questa filosofia, un atto di autodeterminazione che eleva Kowalski da semplice fuggitivo a martire della libertà, un monito bruciante inciso per sempre nell'immaginario collettivo.

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