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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Ventesimo secolo

1934

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Un’opera-mondo, un affresco ipertrofico che tracima dai confini della pellicola per farsi romanzo, poema sinfonico, melodramma verdiano. Parlare di Ventesimo Secolo di Bernardo Bertolucci significa maneggiare una materia incandescente, un monolite cinematografico la cui ambizione smisurata è pari solo alla sua disarmante, a tratti brutale, potenza visiva. Non è un film che si guarda, ma un’esperienza in cui si sprofonda, un fiume di tempo che travolge lo spettatore per oltre cinque ore, lasciandolo alla fine spossato, interrogato, forse persino oltraggiato, ma mai indifferente. È il cinema che si fa Storia, o meglio, che tenta l’impresa folle e hubristica di contenere il flusso caotico della Storia dentro il rettangolo di uno schermo.

Il nucleo narrativo, apparentemente semplice, è la cronaca di un’amicizia impossibile, quella tra Olmo Dalcò, contadino, e Alfredo Berlinghieri, erede di una dinastia di possidenti terrieri, nati entrambi lo stesso giorno del 1901 nella Bassa Padana. Ma questa è solo l'esile impalcatura su cui Bertolucci, come un Tolstoj armato di macchina da presa, edifica la sua Guerra e Pace emiliana. La loro vita parallela e intrecciata diventa il sismografo delle convulsioni di mezzo secolo di storia italiana: l’ascesa del socialismo agrario, l’orrore della Grande Guerra, l’avvento del fascismo, la Resistenza e la Liberazione. Olmo e Alfredo non sono solo due uomini; sono archetipi, le due anime di una terra feconda e dilaniata, il servo e il padrone legati da un cordone ombelicale di affetto e odio che neppure la lotta di classe riesce a recidere del tutto. La loro è una dinamica che va oltre il marxismo da manuale, per attingere a una dimensione quasi mitologica, biblica: Caino e Abele, Esaù e Giacobbe, due fratelli simbolici nati dalla stessa madre, la Terra, che li nutre, li definisce e infine li reclama.

Visivamente, il film è un'orgia per gli occhi, un trattato di estetica cinematografica firmato a quattro mani da Bertolucci e dal suo mago della luce, Vittorio Storaro. La fotografia non si limita a illustrare, ma interpreta, trasfigura, dipinge. C’è una pittura quasi fisica, materica, nelle scene estive della mietitura, dove la luce dorata e polverosa evoca la pittura dei Macchiaioli e l'epica contadina di Pellizza da Volpedo. L’autunno e l’inverno, invece, si ammantano di nebbie livide e di un freddo tagliente che sembrano usciti da un paesaggio fiammingo, preannunciando l'oscurità politica e morale che sta per calare sull'Italia. Storaro non illumina lo spazio, lo scolpisce, usando il colore come un lessico emotivo: il rosso delle bandiere socialiste non è solo un simbolo politico, ma un'esplosione di vitalità dionisiaca, di speranza utopica che pulsa contro il nero putrescente delle camicie fasciste.

Bertolucci orchestra questo immenso materiale con un respiro operistico. Non è un caso che l'ambientazione sia l'Emilia di Giuseppe Verdi. L’intera struttura del film è un melodramma corale, con arie solistiche (i monologhi dei protagonisti), duetti (i confronti tra Olmo e Alfredo), e imponenti scene di massa che richiamano i cori del Nabucco. La partitura di Ennio Morricone, struggente e maestosa, non è semplice accompagnamento, ma un vero e proprio personaggio aggiuntivo che commenta, anticipa ed eleva la narrazione a un livello di pathos quasi insostenibile. La scelta di un cast così eterogeneo – Robert De Niro e Gérard Depardieu, al culmine del loro magnetismo giovanile, affiancati da giganti del cinema classico come Burt Lancaster e Sterling Hayden e da icone europee come Dominique Sanda e Alida Valli – contribuisce a creare un effetto di straniamento quasi brechtiano. Sentire questi volti, così profondamente radicati nel nostro immaginario, parlare con voci italiane doppiate, crea una distanza critica che ricorda allo spettatore di non essere di fronte a un documento realista, ma a una grandiosa e deliberata rappresentazione teatrale della Storia.

Il film non teme di essere sgradevole, anzi, ricerca il grottesco e il sublime con la stessa, famelica intensità. La rappresentazione del fascismo è forse l'esempio più lampante. Bertolucci evita l'analisi politica per concentrarsi sulla sua fenomenologia estetica e psicopatologica. Il personaggio di Attila, interpretato da un Donald Sutherland terrificante e quasi luciferino, non è un semplice gerarca; è una pura incarnazione del Male sadico e teatrale, una figura che sembra partorita da un incubo di Hieronymus Bosch o da una tragedia di Shakespeare. Le sue violenze, come l'uccisione del gatto o la strage dei notabili, sono messe in scena con una crudeltà così esibita e barocca da diventare una forma di anti-estetica, il trionfo della pulsione di morte sulla bellezza e sulla vita. In questo, Bertolucci dialoga a distanza con l'ultimo Pasolini di Salò, esplorando l'abisso dove il potere si fonde con la perversione sessuale e la negazione dell'umano.

Eppure, accanto all'orrore, pulsa una vitalità tellurica, un paganesimo gioioso che esplode nelle scene corali di festa, nei riti contadini, in una sessualità esplicita e a tratti ferina. È il mondo di Olmo, un mondo legato ai cicli della natura, a una saggezza ancestrale che precede e sopravviverà a ogni ideologia. L'afflato utopico che pervade la seconda parte del film, culminando nella catarsi quasi onirica della Liberazione, non va letto come un ingenuo manifesto politico. È piuttosto il sogno di un'impossibile riconciliazione, il desiderio di un "anno zero" in cui i conti con la Storia possano essere finalmente saldati. La celebre e controversa scena finale, con i due vecchi protagonisti che continuano a lottare goffamente sui binari, è la chiusura perfetta di questo cerchio. Bertolucci ci dice che il conflitto non è finito, che la dialettica tra servo e padrone, tra Olmo e Alfredo, è forse l'eterno motore della Storia stessa, un dramma destinato a ripetersi, con maschere e costumi diversi, finché esisterà l'uomo.

Ventesimo Secolo è un'opera smisurata, diseguale, a tratti ingenua nella sua foga ideologica, ma possiede la grandezza dei progetti folli e impossibili. È una cattedrale mostruosa e magnifica, un film che contiene moltitudini, come un poema di Walt Whitman. Tenta di afferrare l'inafferrabile, di dare un volto e un corpo al Ventesimo secolo, con le sue speranze, i suoi massacri, le sue utopie fallite e la sua inestinguibile sete di vita. Non è un film perfetto, e forse proprio per questo è un capolavoro. La sua perfezione risiede nella sua stessa, gloriosa imperfezione, nell'audacia di un regista che ha osato pensare che il cinema potesse non solo raccontare il mondo, ma contenerlo.

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