La Donna che Visse due Volte
1958
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Regista
Vertigo è prima di tutto una sonda sensibilissima dentro le paure dell’uomo, un viaggio abissale nelle pieghe più recondite della psiche umana, dove l’ossessione, la perdita di controllo e l’annientamento dell’identità si manifestano con una forza quasi insopportabile. Non è solo la vertigine fisica a dominare la scena, ma una vertigine esistenziale che attanaglia il protagonista, John "Scottie" Ferguson, e con lui trascina lo spettatore in un baratro emotivo senza eguali.
È un’opera indubbiamente di immenso valore artistico che acquista più potere visivo grazie al modo in cui Hitchcock riesce a filmare su pellicola le emozioni vibranti di ogni personaggio coinvolto in questa storia. Il suo genio risiede nella capacità di trasfigurare l'invisibile, il perturbante del subconscio, in un linguaggio cinematografico di disarmante potenza. Pensiamo alla palette cromatica, in particolare al verde spettrale che avvolge Madeleine, quasi a suggerirne la natura eterea e spettrale, o alle iconiche spirali che si ripetono ossessivamente, dalle scalinate al ciuffo dei capelli di Kim Novak, simbolo visivo della paranoia e della spirale discendente in cui Scottie precipita. A ciò si aggiunge la partitura musicale di Bernard Herrmann, un capolavoro a sé stante, le cui note struggenti e pervasive si fondono con le immagini, elevando il senso di fatalità e romanticismo morboso a vette inarrivabili. È una sinfonia di angoscia e desiderio, un commento sonoro che scava nell'anima quanto le immagini stesse.
La trama vede un detective di San Francisco, tormentato da acrofobia e dal senso di colpa, ingaggiato dal marito di una donna per seguire la consorte e indagare sul suo stato di salute mentale. Sarà l’occasione per l’uomo di sprofondare in una spirale di paranoia e mistero, ma anche in una prigione autoimposta di desiderio irrealizzabile. Scottie, inizialmente un osservatore esterno, un voyeur per professione, diventa ben presto l'oggetto e il soggetto di un'ossessione che lo consuma, trasformandolo da cacciatore a preda, non di un criminale, ma della sua stessa psiche distorta. La città di San Francisco, con le sue colline ripide e i suoi quartieri eleganti, diviene quasi un personaggio a sé stante, un labirinto urbano che riflette la complessità labirintica della mente di Scottie.
L’arte più perversa di Hitchcock è quella di renderci partecipi – gradualmente ma inesorabilmente – delle fobie della protagonista, ma sempre in uno stato di sospensione, come a darci il tempo per chiederci: tutto questo è reale? Un gioco al massacro sulla pelle dello spettatore, quindi, il passatempo preferito di Hitchcock (e qui ci starebbe bene una faccina sorridente), che ci rende complici di un atto di voyeurismo e manipolazione. Quando la verità viene svelata a metà del film, in un gesto di audacia narrativa che all'epoca disorientò non pochi critici, il mistero lascia il posto a una tragedia psicologica di rara intensità. Non si tratta più di "chi l'ha fatto?", ma di "perché lo sta facendo?" e "fino a che punto si spingerà?". L'attenzione si sposta dall'intrigo esterno alla tortura interna, trasformando il thriller in un'indagine profonda sul desiderio maschile di possesso e sulla dissoluzione dell'identità femminile. La scena della trasformazione di Judy in Madeleine, dove Scottie modella e ricrea l'oggetto del suo desiderio con una precisione quasi maniacale, è un vertice di cinema sulla natura della proiezione e della necrofilia emotiva, un'esplorazione inquietante del mito di Pigmalione rovesciato nel suo lato più oscuro.
Ma Vertigo è anche una storia d’amore, ed è questa la grande maestria narrativa: quella di far marciare di pari passo, perfettamente sincronizzati, i due generi: thriller e romantico, per poi fondere il tutto in una tragedia classica shakespeariana. Non un amore idilliaco, bensì una passione ossessiva e autodistruttiva, un'ossessione necrofila per un fantasma, il tentativo disperato di un uomo di resuscitare un'illusione, di controllare e rimodellare la donna amata a sua immagine e somiglianza, o meglio, all'immagine di un'altra. È il dramma del desiderio inappagato, della memoria che inganna, della solitudine che corrode. L'amore qui è una forma di prigionia, per chi lo prova e per chi ne è l'oggetto, un legame morboso che porta inevitabilmente alla catastrofe. Il film prefigura temi che verranno ripresi da registi successivi, come Brian De Palma o David Lynch, nella loro esplorazione delle dinamiche tra identità, rappresentazione e desiderio, consolidando il suo status di opera seminale.
Una menzione negativa per l’Academy che nell’attribuzione degli Oscar nel 1958 non considerò né questo film né Touch of Evil di Welles, un vero e proprio scempio che la storia del cinema ha ampiamente corretto. All'epoca, Vertigo fu accolto con una certa freddezza dalla critica, forse troppo avanti rispetto ai suoi tempi, troppo complesso nella sua struttura, troppo scomodo nella sua analisi delle perversioni umane. Non ottenne nemmeno una nomination per la Miglior Regia o il Miglior Film. Eppure, nel corso dei decenni, il suo status è cresciuto esponenzialmente, fino a essere incoronato come "Il più grande film di tutti i tempi" nel sondaggio decennale di Sight & Sound del 2012, superando persino Quarto Potere. Questo ribaltamento di giudizio testimonia la sua profondità inesauribile, la sua capacità di continuare a interrogare e affascinare generazioni di spettatori e studiosi, rimanendo sempre un passo avanti.
Vertigo: un lungo brivido su pellicola, una regia magistrale che disegna architetture emotive prima ancora che fisiche, un film insostituibile che continua a svelare nuove profondità ad ogni visione, dimostrando la sua intramontabile potenza come indagine sull'ossessione, sulla perdita e sulla natura illusoria della realtà. È un monumento cinematografico alla fragilità della mente umana e alla perenne ricerca di ciò che non può essere afferrato.
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