Vite Vendute
1953
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Regista
Un film davvero unico questo di Clouzot, grande talento visionario nell’imprimere su pellicola uno spettro analitico della realtà attraverso una leggera distorsione focale venata di assurdo. La sua capacità non è semplicemente quella di creare tensione, ma di scavare a fondo nell'animo umano, svelando le fragilità e le pulsioni più recondite celate sotto la patina della civiltà. "Vite Vendute" (Le Salaire de la Peur), lungi dall'essere un mero thriller d'azione, si rivela così un'implacabile discesa negli abissi della psiche umana, un'esplorazione della paura, della disperazione e della morale nel suo punto di rottura, il tutto avvolto in un velo di nichilismo esistenziale che era tanto caro al regista francese.
La storia è quella di quattro uomini, due francesi, uno svedese e un italiano, che in una cittadina sperduta del Sudamerica si imbarcano in una missione a dir poco pericolosa. Quella cittadina di Las Piedras, polverosa e soffocante, diviene quasi un purgatorio terrestre, un limbo da cui non si può fuggire se non accettando un patto faustiano con il pericolo. I protagonisti – il cinico e disincantato Mario (Yves Montand), il fragile e terrorizzato Luigi, il saggio e taciturno Bimba, e soprattutto l'anziano e in declino Jo (magistralmente interpretato da Charles Vanel), un tempo uomo di successo, ora relitto patetico – sono reietti, uomini senza futuro, bloccati in un angolo di mondo dimenticato. Trasportare su due camion un carico di nitroglicerina per recarsi a spegnere un pozzo petrolifero in fiamme, a 600 km di distanza, diviene la loro unica, disperata, via d'uscita. È la fame, la noia e la disperazione che li spinge ad accettare l'incarico, trasformando le loro vite, già precarie, in una merce di scambio, un "salario della paura" pagato al prezzo della loro stessa esistenza.
Clouzot è abile nel tracciare il profilo di ognuno degli uomini e ricavarne una maschera gonfia di biascicata ironia. Ma queste "maschere" di superficiale cinismo o di forzata spavalderia si crepano progressivamente sotto l'inesorabile pressione della minaccia imminente. Clouzot non è interessato a eroi, ma a uomini nudi, spogliati di ogni retorica, che mostrano le loro meschinità, le loro paure più profonde, le loro rare, ma intense, scintille di umanità. La relazione tra Mario e Jo, in particolare, è un microcosmo di dipendenza e risentimento, un legame morboso che si svela in tutta la sua tossicità e complessità man mano che il viaggio procede. Vanel, in un'interpretazione che resta nella storia del cinema per il suo realismo brutale, incarna la degradazione fisica e morale con una verità disarmante, la sua figura ingombrante che si contrae in un groviglio di sudore e terrore, trasformando il macho fanfarone in una figura pietosa e quasi ripugnante.
Il film è una miniera iconografica con una fotografia a dir poco splendida che ritrae il paesaggio amazzonico nella sua lussureggiante bellezza. La fotografia in bianco e nero di Armand Thirard non si limita a ritrarre, ma immerge lo spettatore in questo ambiente ostile. Ogni inquadratura è satura di un calore opprimente, di polvere che si posa su ogni cosa, di ombre che si allungano minacciose, rendendo palpabile il senso di claustrofobia e l'isolamento dei personaggi. Il paesaggio, benché "lussureggiante" nella sua natura selvaggia, non è mai un elemento consolatorio; al contrario, diviene un co-protagonista impassibile, un'arena primitiva in cui l'uomo è un intruso fragile e vulnerabile, costretto a misurarsi con una natura indifferente alla sua sorte. La bellezza della jungla, così intesa, è una bellezza brutale, quasi beffarda, che contrasta violentemente con la sordida realtà della lotta per la sopravvivenza.
Il ritmo è forsennato dall’inizio alla fine, Clouzot non toglie mai il piede dall’acceleratore conducendoci a spron battuto verso il punto focale del film. Tutto si sussegue a folle velocità, ogni momento è direttamente inghiottito dal seguente, Clouzot tiene sospeso ogni secondo, fino all’esplosione del tremendo dramma. La maestria di Clouzot nel maneggiare la suspense è qui elevata a forma d'arte, un paradigma per ogni thriller venuto dopo. Non è una suspense fatta di colpi di scena gratuiti, ma di una tensione costante, quasi insopportabile, costruita minuziosamente attraverso dettagli visivi e sonori, silenzi carichi di presagi e dialoghi scarni ma incisivi. Ogni ostacolo – una strada dissestata, una pozza di fango, una curva cieca, un ponte traballante, o l'ingegnosa sequenza dell'esplosione di un'enorme roccia – non è solo una sfida fisica, ma un catalizzatore per la paura, un pretesto per esacerbare la psiche già provata degli uomini. La macchina da presa si fa occhio implacabile, soffermandosi sui volti madidi di sudore, sulle mani che tremano sul volante, sul liquido instabile che ondeggia nelle taniche, rendendo lo spettatore complice e vittima di quella stessa agonia. È un tour de force narrativo e registico che, per la sua intensità e il suo realismo crudo, anticipa di decenni la brutalità viscerale di certo cinema d'azione, pur mantenendo una profonda risonanza psicologica. Molti registi, da William Friedkin con il suo "Sorcerer" (evidente e quasi doveroso remake) a gran parte del cinema survivalista, hanno attinto a piene mani da questa lezione di claustrofobia su ruote.
Da un romanzo di Arnaud che a suo tempo passò quasi inosservato, Clouzot seppe estrarre la quintessenza. Il romanzo di Georges Arnaud, "Le Salaire de la Peur," pur essendo la fonte, fu trasfigurato da Clouzot in un'opera che trascendeva la mera trama avventurosa per diventare una feroce allegoria sull'alienazione e la mercificazione dell'essere umano nel sistema capitalistico. La compagnia petrolifera, presentata come un'entità onnipotente e anonima, è un simbolo della fredda indifferenza del potere economico nei confronti della vita individuale. Il film è, in ultima analisi, un'audace riflessione sulla dignità umana in circostanze estreme: quanto vale una vita? Quanto siamo disposti a rischiare per una promessa di salvezza, per una fetta di ricchezza che potrebbe non essere mai riscossa? La violenza non è solo fisica ma anche sistemica, una violenza che consuma le anime ben prima di distruggere i corpi, e che rispecchiava le profonde ferite e disillusione di un'Europa del dopoguerra.
Un vero e proprio tesoro del cinema francese che vi consigliamo caldamente di non perdere. Clouzot non offre facili catarsi o soluzioni consolatorie; il suo è un cinema che scava nel cuore del buio, lasciando lo spettatore con un senso di amara consapevolezza. Per la sua implacabile tensione, la sua magistrale regia, le performance indimenticabili del suo cast e la profondità dei temi trattati, "Vite Vendute" si è giustamente guadagnato un posto d'onore nell'olimpo cinematografico, fregiandosi sia della Palma d'Oro al Festival di Cannes che dell'Orso d'Oro a Berlino nello stesso anno, un riconoscimento quasi unico nella storia del cinema. È un monito potente e ancora oggi inquietante sulla natura precaria dell'esistenza e sulla spietata logica della sopravvivenza, un capolavoro senza tempo che continua a scuotere e a interrogare lo spettatore con la stessa forza dirompente di quel carico esplosivo che definisce il suo nucleo narrativo.
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