Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Voglia di tenerezza

1983

Vota questo film

Media: 4.40 / 5

(5 voti)

Un sismografo delle micro-fratture emotive, un trattato di negoziazione affettiva mascherato da commedia familiare. Ecco cos'è, al netto della sua patina da blockbuster sentimentale da Oscar, Voglia di tenerezza (titolo originale, Terms of Endearment, infinitamente più preciso e crudele). L'opera con cui James L. Brooks, transfuga eccellente dalla televisione d'autore (The Mary Tyler Moore Show, Taxi), esordì al cinema nel 1983 non è semplicemente un film strappalacrime, né tantomeno una celebrazione della resilienza femminile. È, piuttosto, la mappatura trentennale di un campo di battaglia emotivo, il salotto di casa, e di un'alleanza tanto indistruttibile quanto tossica, quella tra una madre e una figlia che si amano con la stessa furia con cui si sabotano.

La grandezza del film risiede nella sua struttura apparentemente sciatta, quasi aneddotica, che mima il flusso disordinato della vita stessa. Brooks, attingendo al romanzo omonimo di Larry McMurtry – un cantore del West moderno le cui epopee sono sempre radicate in paesaggi interiori desolati – rifiuta la progressione drammatica convenzionale. Al suo posto, orchestra una serie di vignette, di ellissi temporali, di conversazioni telefoniche che diventano veri e propri ring psicologici. La narrazione procede per accumulo di dettagli, per la sedimentazione di piccole ferite e gioie effimere. È una tecnica che deve tutto alla serialità televisiva di alta gamma, dove il personaggio ha la precedenza sull'intreccio, ma qui viene elevata a forma d'arte cinematografica. Il risultato è un’opera che ha la densità di un romanzo di John Updike e il ritmo nevrotico di una pièce di Neil Simon, un ibrido miracoloso che Hollywood sembra aver dimenticato come produrre.

Al centro di questo universo orbitano due soli incandescenti: Aurora Greenway (Shirley MacLaine) e sua figlia Emma (Debra Winger). Aurora è un'architettura di nevrosi e perbenismo vedovile, una donna che esercita il controllo come una forma d'amore e l'amore come una forma di controllo. La sua performance è un capolavoro di modulazione: passa da un sussiego aristocratico a un'isteria da camera da letto con una fluidità terrificante, culminando in quella scena immortale in ospedale (“Give my daughter the shot!”) che è l'apoteosi del suo personaggio. Non è solo una madre preoccupata, è una forza della natura che piega la burocrazia e la morte stessa alla sua volontà, perché l'alternativa è inaccettabile. Shirley MacLaine, icona della New Hollywood, qui si spoglia di ogni vezzo per incarnare una figura quasi mitologica, una Demetra texana terrorizzata all'idea di perdere la sua Persefone.

Emma, d'altro canto, è il contrappunto perfetto. Debra Winger, in una delle sue interpretazioni più magnetiche e sottovalutate, le dona una fragilità d'acciaio, un'intelligenza irrequieta che la porta a cercare la fuga – nel matrimonio precoce con l'inetto Flap (un giovane e perfetto Jeff Daniels), nell'adulterio malinconico con un banchiere sensibile (Danny DeVito, in un cameo struggente) – per poi scoprire che la prigione più sicura è quella che si porta dentro. Il loro rapporto è la vera spina dorsale del film, una danza di attrazione e repulsione scandita da telefonate che sono vere e proprie partiture emotive. Le loro conversazioni sono un concentrato di non detti, di accuse velate, di disperati tentativi di connessione che finiscono quasi sempre in un'incomprensione dolorosa. È un duello che, per complessità psicologica, potrebbe stare accanto ai confronti madre-figlia del cinema di Ingmar Bergman, come in Sinfonia d'autunno, se solo Bergman avesse avuto il senso dell'umorismo per ambientarlo in un sobborgo di Houston.

E poi c'è Garrett Breedlove, l'astronauta in pensione, il vicino di casa, il diavolo tentatore incarnato da un Jack Nicholson al suo apogeo. Nicholson non interpreta un personaggio, interpreta l'archetipo di sé stesso: il satiro dal sorriso mefistofelico, l'anarchico individualista che vive secondo un codice morale tutto suo. La sua introduzione è folgorante: un uomo che è stato sulla luna e ora si ritrova a misurare il suo declino tra alcol, donne e una pancia prominente. La sua funzione è quella di un detonatore. Fa esplodere la corazza di Aurora, la costringe a confrontarsi con la propria femminilità repressa, con la propria solitudine. La loro storia d'amore è una delle più bizzarre e credibili mai scritte: non un idillio romantico, ma un accordo tra due solitudini cosmiche, un patto tra un uomo che ha visto il vuoto dello spazio e una donna che ha passato la vita a riempire i vuoti della propria esistenza con il controllo maniacale. Garrett è una cometa che attraversa il sistema solare dei Greenway, lasciando una scia di caos e, inaspettatamente, di tenerezza.

Il film uscì in un'America reaganiana, un'epoca di ottimismo rampante, di eroi muscolari e di narrazioni manichee. In questo contesto, Voglia di tenerezza fu un atto di contro-programmazione culturale. Un film profondamente adulto che parlava di insoddisfazione, tradimento, malattia e morte senza filtri consolatori. Ignorava le regole del blockbuster per concentrarsi sulle sfumature, sui tempi morti, sulla banalità del quotidiano che, all'improvviso, viene squarciata dalla tragedia. La sua vittoria all'Oscar come Miglior Film, contro opere più "generazionali" come Il grande freddo, fu il segnale che esisteva ancora un'Academy (e un pubblico) disposta a premiare la complessità emotiva sulla nostalgia patinata.

La controversa virata del film nel terzo atto, con la diagnosi terminale di Emma, è stata spesso accusata di essere un colpo basso, un espediente melodrammatico per estorcere lacrime. Ma è una lettura superficiale. La malattia non è un deus ex machina, ma l'inevitabile punto di arrivo di un racconto che ha sempre trattato la vita come una serie di eventi imprevedibili e spesso crudeli. Brooks non è interessato al patetismo della malattia in sé, ma a come essa agisca da catalizzatore, costringendo i personaggi a rinegoziare i "termini" del loro affetto di fronte all'assoluto. Le scene finali di Emma con i suoi figli sono di una brutalità straziante proprio perché evitano ogni sentimentalismo. Il suo addio non è poetico; è pratico, urgente, disperato. È il testamento di una madre che sa di non avere più tempo per correggere gli errori, ma che può ancora tentare di armare i propri figli contro il dolore che lei stessa ha conosciuto.

Rivedendolo oggi, Voglia di tenerezza appare come un reperto di un'era cinematografica estinta, un cinema medio-alto che si fidava dell'intelligenza del suo pubblico e della bravura dei suoi attori. La fotografia di Andrzej Bartkowiak cattura la luce piatta e implacabile del Texas, trasformando i giardini curati e gli interni borghesi in arene esistenziali che ricordano la solitudine sospesa dei quadri di Edward Hopper. Ogni inquadratura è al servizio della performance, ogni dialogo è levigato fino a diventare un'arma o una carezza. È un'opera che dimostra come i drammi più universali non si consumino sui campi di battaglia o nelle stanze del potere, ma durante una telefonata interurbana, nel corridoio di un ospedale, nel silenzio che segue l'ennesima lite. È un capolavoro di usura emotiva, un film che ci lascia svuotati ma stranamente arricchiti, consapevoli che i patti che stringiamo per amore sono sempre a tempo determinato, e che la tenerezza, spesso, è solo un altro nome per la resa.

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7
Immagine della galleria 8

Commenti

Loading comments...