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Valzer con Bashir

2008

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Regista

Il film di Ari Folman è un thriller della memoria, una seduta psicanalitica a cielo aperto, un'indagine poliziesca in cui l'investigatore, il crimine e la vittima sono la stessa persona. È un'opera che, con un'audacia formale che ha del miracoloso, ha inventato un nuovo linguaggio per raccontare l'irraccontabile: il trauma. Folman non si limita a usare l'animazione come un vezzo stilistico; la sceglie come unico strumento possibile per mappare la geografia infida e allucinata del ricordo represso, creando un'esperienza cinematografica che è al contempo un sogno febbrile e una lucidissima confessione. Questo film non chiede di essere semplicemente visto; chiede di essere testimoniato.

La premessa è un viaggio nell'oscurità della propria mente. Un regista israeliano, lo stesso Ari Folman, si rende conto di avere un buco nero nella sua memoria riguardo alla sua esperienza come giovane soldato durante l'invasione del Libano del 1982. Spinto dall'incubo ricorrente di un amico, una muta di ventisei cani feroci che lo insegue per le strade di Tel Aviv, un'immagine di una potenza quasi biblica che apre il film, Folman decide di intervistare altri veterani di quel conflitto per ricostruire i suoi ricordi perduti. Ogni intervista non è una semplice raccolta di fatti, ma l'innesco di un frammento di memoria, una tessera di un puzzle psicologico che si ricompone lentamente, pezzo per pezzo. Il film diventa così una perfetta allegoria del processo psicanalitico: la ricerca della verità non avviene attraverso una rivelazione improvvisa, ma attraverso il "lavoro del ricordo", un percorso doloroso in cui le storie degli altri servono da specchio per illuminare gli angoli bui della propria psiche.

In questo viaggio, il tema della guerra israelo-palestinese viene affrontato con un coraggio e un'onestà intellettuale rari, specialmente nel cinema israeliano. Folman compie un atto di auto-critica nazionale di una potenza devastante. Il punto di arrivo della sua indagine personale è la sua presenza, e quella dell'esercito israeliano, ai margini dei campi profughi di Sabra e Shatila durante il massacro di civili palestinesi perpetrato dalle milizie falangiste cristiane. Il film non offre risposte facili o assoluzioni. Esplora la zona grigia della complicità, la responsabilità del testimone che non agisce, la colpa del soldato che obbedisce agli ordini. Il punto di vista dell'artista, dell'uomo e del militare non sono separati, ma sono tre frammenti di un'identità in frantumi che lottano per conciliarsi. L'artista sente il dovere etico di ricordare, l'uomo è terrorizzato da ciò che potrebbe scoprire, e il giovane soldato che era ha messo in atto il più potente dei meccanismi di difesa: l'oblio.

È nel contenuto delle interviste e nelle scene memorabili che la scelta dell'animazione rivela tutta la sua genialità. Poiché la memoria del trauma non è mai realistica, ma è frammentaria, surreale e allucinata, Folman usa un'animazione Flash distintiva, con i suoi colori saturi e i suoi movimenti fluidi e quasi "fluttuanti", per dare corpo a un'estetica che potremmo definire realismo metafisico applicato al genere documentaristico. La funzione dell'animazione in quest'opera va ben oltre la semplice estetica; è una scelta filosofica ed etica. Folman la usa come un filtro di pudore, un modo per rappresentare l'orrore senza cadere nella trappola della spettacolarizzazione voyeuristica che una ricostruzione live-action avrebbe rischiato. Ma, più a fondo, l'animazione diventa il linguaggio perfetto per la fallibilità della memoria. La sua natura intrinsecamente soggettiva, ogni linea è una scelta, un'interpretazione, rispecchia perfettamente lo stato di un ricordo traumatico: non è una fotografia della realtà, ma una sua ricostruzione febbrile e allucinata. Le influenze per questo stile visivo così particolare sono molteplici. Si avverte l'eco della fluidità quasi-rotoscopica di certi film di Richard Linklater, che dona realismo ai movimenti, ma l'impatto maggiore sembra provenire dalla graphic novel europea. Lo stile grafico, con i suoi contorni neri e netti e i suoi colori piatti e saturi, ricorda una versione più cupa e politicamente carica della "ligne claire" franco-belga, innestata su una sensibilità cromatica che deve molto all'Espressionismo, dove le luci gialle e malate della città non descrivono un luogo, ma uno stato d'animo. È un'arte che permette a Folman di liberarsi dalle catene del realismo per documentare non i fatti, ma la loro eco tormentata nell'anima. Questo gli permette di visualizzare l'invisibile: i sogni, gli incubi, le metafore. Vediamo un soldato uscire dal mare nudo, aggrappato al corpo gigantesco e materno di una donna. Vediamo carri armati che si muovono in un paesaggio che sembra uscito da un quadro di Dalì. E poi, c'è la scena che dà il titolo al film: un soldato, sotto il fuoco nemico in una piazza di Beirut tappezzata di manifesti del leader assassinato Bashir Gemayel, afferra un mitragliatore e inizia a sparare all'impazzata, piroettando su se stesso in un valzer macabro e disperato. È una "danza della morte" allucinata, un balletto di proiettili e psicosi che cattura la follia della guerra meglio di qualsiasi immagine realistica. È la bellezza terribile che si può trovare nell'orrore, un'intuizione estetica che percorre tutto il film.

Ma il gesto cinematografico più potente e radicale, Folman lo riserva per il finale. Dopo quasi novanta minuti passati nel mondo "protetto" dell'animazione, che ci ha permesso di guardare l'orrore attraverso il filtro estetico del disegno, il regista compie uno stacco brutale. L'animazione scompare e veniamo scaraventati dentro reali, agghiaccianti filmati di repertorio del massacro di Sabra e Shatila. Vediamo i volti veri delle donne che piangono, i corpi veri, senza vita, accatastati per le strade. È un pugno nello stomaco, uno shock calcolato che frantuma la quarta parete. È un atto di profonda responsabilità etica. Folman ci sta dicendo: "Fin qui abbiamo sognato, ricordato, metaforizzato. Ma questo, questo non è un disegno. Questo è successo davvero. E la sua realtà è così insostenibile che nessuna animazione può contenerla". È l'ammissione dei limiti della rappresentazione e, al contempo, la più forte affermazione della necessità della testimonianza. Valzer con Bashir non solo ha ridefinito le possibilità del documentario e dell'animazione, ma ci ha lasciato con una lezione indimenticabile: a volte, per arrivare al cuore della verità, bisogna prima avere il coraggio di attraversare il labirinto dei sogni.

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