West Side Story
1961
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Registi
Un film che ha ridisegnato i canoni del musical purificandolo dalla patina di buonismo hollywoodiano e calandolo nel contesto metropolitano dove il ballo si trasfigura come lotta per la sopravvivenza, desiderio di emergere, canone espressivo corporeo inteso come primo linguaggio istintuale. Laddove il musical classico si era spesso adagiato su narrazioni escapiste e scenografie patinate, West Side Story irrompe con la cruda, vibrante energia delle strade, traslando la grazia coreografica in una vera e propria danza di conflitto, un balletto primordiale in cui ogni movimento è una dichiarazione di intenti, una minaccia, una preghiera o un disperato anelito di libertà. È la corporeità elevata a simbolo della tensione sociale, del desiderio di affermazione e della violenza endemica che pulsa sotto la superficie di una metropoli in ebollizione.
Grazie allo straordinario lavoro di Leonard Bernstein in sede di composizione e soprattutto all'eccezionale genio coreografico di Jerome Robbins, il ballo diviene dunque pura narrazione, un nuovo linguaggio con cui poter raccontare una storia. Non più mero interludio o sfoggio virtuosistico, ma elemento drammatico intrinseco, il motore stesso della trama. Robbins, proveniente dal balletto classico ma con una profonda sensibilità per la vitalità della danza moderna e del jazz, ha infuso nelle sequenze coreografiche una fluidità e una potenza tali da renderle intelligibili anche in assenza di dialogo, esprimendo la rabbia dei Jets, l'orgoglio degli Sharks e la malinconia degli amori impossibili con una maestria che trascende il puro intrattenimento. La sinergia tra la partitura audace di Bernstein, che fonde jazz, sonorità latine e contrappunti classici, e le coreografie tese e dinamiche di Robbins, crea un'esperienza multisensoriale che avvolge lo spettatore, trascinandolo senza preavviso nelle vie di New York.
La narrazione è la rilettura in chiave moderna di Romeo e Giulietta: due bande rivali, i Jets e gli Sharks, si affrontano nei bassifondi per il dominio territoriale. Ma la New York del film, tratteggiata con un realismo quasi documentaristico nonostante l'estetica del musical, non è solo lo sfondo di una faida giovanile; è il crogiolo di profonde tensioni sociali e razziali che ribollivano nell'America post-bellica. I Jets, figli di immigrati europei "bianchi", si sentono minacciati dall'arrivo massiccio dei portoricani (gli Sharks), in un conflitto di identità e appartenenza che va ben oltre la mera violenza di strada. Il loro scontro è una micro-battaglia per il controllo di un territorio che simboleggia un'illusoria fetta del sogno americano, un microcosmo di odio e incomprensione che si specchia nelle più ampie divisioni della società. La scelta del colore, dei costumi e delle ambientazioni urbane dismesse, dalla scenografia alle riprese in esterni, contribuisce a creare un'atmosfera di palpabile tensione, dove la bellezza tragica dei numeri musicali si staglia contro la brutalità della realtà.
L’amore di Maria, sorella del capo degli Sharks, per Tony, appartenente alla banda rivale, cambierà i termini e la sorte della contesa, rivelando l'ineluttabile tragedia che permea le dinamiche di odio e pregiudizio. La loro relazione è un fragile ponte gettato sull'abisso di una faida ancestrale, un'ancora di salvezza che si rivela, nella sua purezza e disarmante ingenuità, insufficiente a fermare la spirale di violenza. La speranza di Maria e Tony è un lumicino destinato a essere spento dalla furia cieca del settarismo, rendendo il loro sacrificio un amaro monito sull'impossibilità, talvolta, di sfuggire a un destino scritto dalla società. Il film non concede facili happy ending, ma si spinge in territori di profondo pessimismo, suggerendo che l'amore, per quanto potente, può essere sopraffatto dall'odio radicato.
Canzoni come “I Feel Pretty”, con la sua leggerezza sognante che contrasta con la realtà circostante, “One Hand, One Heart”, inno alla purezza di un amore destinato alla catastrofe, e “Something’s Coming”, carica di un'impaziente premonizione, divennero istantaneamente delle hit, ma la loro risonanza va ben oltre il successo radiofonico. Sono architetture sonore che definiscono i personaggi, spingono la narrazione e fungono da specchio emotivo, rendendo ogni parola di Stephen Sondheim e ogni nota di Bernstein un tassello fondamentale dell'esperienza cinematografica. Anche brani come la satirica e vibrante “America”, che cattura le ambivalenze dell'esperienza migratoria, o il corale e fatalistico “Tonight”, che prepara il terreno per la battaglia decisiva, dimostrano l'incredibile capacità della colonna sonora di essere al contempo un'opera d'arte autonoma e un'integrazione perfetta del linguaggio filmico.
Dieci Oscar per un monumentale inno al potere espressivo del corpo, della musica, delle immagini. La vittoria trionfale di West Side Story agli Academy Awards, inclusa la statuetta per il Miglior Film e il Miglior Regista (assegnata a Robert Wise e Jerome Robbins), non fu solo un riconoscimento di eccellenza tecnica e artistica, ma una consacrazione di un nuovo paradigma nel cinema musicale. Il film dimostrò che il musical poteva essere drammaticamente potente, socialmente rilevante e esteticamente audace, aprendo la strada a produzioni future che non avrebbero temuto di affrontare temi più cupi o di esplorare nuove frontiere stilistiche. La regia, spesso dinamica e innovativa, con l'uso di ampi movimenti di macchina che seguivano la danza e la drammaturgia, conferisce alla pellicola un'energia quasi palpabile, immortalando la brutalità e la bellezza della vita di strada. West Side Story rimane, a distanza di decenni, una pietra miliare non solo del genere musical, ma del cinema tout court, un'opera atemporale sulla natura distruttiva del pregiudizio e sulla bellezza effimera della speranza, che continua a risuonare con la stessa intensità e urgenza nel contemporaneo.
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