Che Fine ha Fatto Baby Jane?
1962
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Regista
Da un romanzo di Henry Farrell un meraviglioso viaggio attraverso la paranoia per mano di Robert Aldrich. Non è un semplice thriller psicologico, ma un’opera che si insinua nelle pieghe più oscure dell’animo umano, rivelando le radici profonde di una follia che affonda nel rancore e nella disillusione, con echi del più torbido Grand Guignol cinematografico.
Due sorelle, Jane e Blanche Hudson, vivono nella stessa villa decadente, vestigia di un passato che non è solo glorioso ma anche irrimediabilmente tossico, un’architettura gotica di sogni infranti e rivalità non risolte. Ambedue hanno ricoperto il ruolo di star del cinema, ma con traiettorie crudelmente divergenti. Jane, la "Baby Jane" del titolo, fu infatti una star bambina, un prodigio precocemente bruciato, la cui breve fulgida carriera fu presto eclissata dal successo più maturo e sostenuto della sorella Blanche, la diva dal fascino sofisticato.
Ora che entrambi versano in una solitudine autoimposta e carica di risentimento, devono abituarsi a convivere, e per Jane, questo arrangiamento diventa l’occasione per una rivincita morale, crudele e patologica, su Blanche, la cui fragilità fisica è accentuata dalla condizione di inferma su una sedia a rotelle. Un viluppo di sordidi rancori avvolgerà come un caldo manto la loro vita, tra reciproci tranelli e squallide ripicche, un crescendo di orrore domestico che scava nel profondo della psiche di due donne prigioniere del proprio passato e l'una dell'altra. È un "locus horribilis" che diventa cassa di risonanza per l'incancrenirsi di un amore fraterno distorto, trasformandosi lentamente in una prigione mentale e fisica per entrambe.
Come voyeur nascosti nell’ombra, siamo trascinati nella claustrofobica intimità di questo dramma, seguendo l’inquietante routine domestica delle due sorelle. Aldrich, con un abile congegno narrativo e una regia che sfrutta ogni ombra e ogni scricchiolio, ci rende complici della vicenda, una sorta di patto tra lo spettatore e il regista suggellato nei polverosi recessi di quella vecchia casa, che da simbolo di opulenza è ora un monumento funebre al declino. L'atmosfera è resa ancor più palpabile dalla fotografia in bianco e nero di Ernest Haller, che accentua i chiaroscuri e le textures decadenti, trasformando ogni inquadratura in un dipinto espressionista dell'angoscia.
Tante le scene memorabili in cui Bette Davis, nei panni grotteschi e terrificanti di Jane, sciorina un mestiere che è davvero rimasto insuperato. La sua performance è una prova di forza, una masterclass di recitazione che trascende il ruolo per esplorare i confini della psiche malata. Corre alla mente per esempio il rapporto malato di Jane con la sua bambola, un feticcio che ha il potere di farla regredire a bambina e che in una scena memorabile è oggetto di un canto da parte della vegliarda che, con un trucco pesante e un sorriso sardonico, ritorna fanciulla, salvo poi risvegliarsi atterrita dalla sua immagine riflessa nello specchio – un momento di lucidità tanto breve quanto agghiacciante – mentre nella stanza accanto Blanche inorridisce ascoltando le sue urla disperate e alienate. È in questi momenti che la performance della Davis si eleva, catturando la complessità di una figura al contempo vittima e carnefice, un’anima devastata intrappolata nella sua stessa interpretazione di "Baby Jane".
Menzione di merito, anzi di lode suprema, per le due straordinarie attrici che si scontrano sul set e sullo schermo: Bette Davis e Joan Crawford. Le loro leggendarie e ben documentate faide reali, lungi dal danneggiare il progetto, ne hanno alimentato la tensione, conferendo alle loro interazioni una carica palpabile di autentico rancore. Il sublime contrasto tra l'iperbole macabra e istrionica della Davis e la composta, ma non meno intensa, angoscia della Crawford crea una dinamica di forza e debolezza, di follia e (apparente) sanità che è il vero cuore pulsante del film. La Crawford, con la sua vulnerabilità forzata, è la perfetta controparte dell'eruzione vulcanica della Davis, e la loro chimica negativa è magnetica.
Un’opera spietata che fa luce sui rancori familiari e sull’equilibrio instabile di un rapporto minato da rancori mai sopiti, una vera e propria anatomia della co-dipendenza patologica. Il film non è solo un horror psicologico, ma anche una pungente riflessione sulla natura effimera della celebrità e sulla crudeltà del sistema di Hollywood, che spesso divora i suoi stessi figli, lasciandoli poi a marcire in solitudine, aggrappati a fantasmi di gloria passata, un tema già magistralmente esplorato in Sunset Boulevard.
Un film devastante, un lungo e stridente canto sull’amore fraterno corrotto, che si imprime nella memoria e continua a risuonare ben oltre l’ultima sequenza sulla spiaggia, un capolavoro di perversione e disperazione che ha generato un intero sottogenere – quello delle "Psycho-biddy" movies – e che rimane, a distanza di decenni, un’icona incancellabile del cinema gotico e della psiche umana al suo limite estremo.
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