Whiplash
2014
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Regista
Sarebbe un insulto definire il ventinovenne Damien Chazelle un promettente filmmaker alla sua seconda prova, perché Whiplash è oggettivamente un’opera di livello assoluto, realizzata con un mestiere magistrale e consumata perizia, capace di mietere consensi e ammirazione sia di pubblico che di critica. La sua capacità di condensare una narrativa così potente e un'esecuzione tecnica impeccabile in poco più di cento minuti, traendo peraltro linfa vitale da un suo precedente cortometraggio omonimo – quasi una prova generale sublimata e perfezionata – rivela una maturità artistica che trascende la sua età anagrafica.
In effetti stiamo parlando di un film con un budget limitato (appena 3 milioni di dollari, una cifra irrisoria nel panorama hollywoodiano) che tecnicamente sembra realizzato da un regista dallo smisurato bagaglio tecnico e con decennale esperienza in campo cinematografico. Il modo in cui Chazelle manipola il ritmo visivo ed emotivo è quasi virtuosistico: l'editing frenetico, spesso sincopato come i colpi di rullante, non solo spinge la narrazione in avanti ma amplifica la tensione psicologica e la fisicità della performance musicale. Ogni taglio, ogni inquadratura ravvicinata sulle mani insanguinate di Andrew, sul sudore imperlato o sullo sguardo glaciale di Fletcher, è calcolata per massimizzare l'impatto. La meticolosa attenzione al sound design, dove il suono delle bacchette che colpiscono il piatto o il rullare incalzante della batteria diventa quasi un personaggio a sé, testimonia una profonda comprensione della risonanza sensoriale del cinema.
Viene piuttosto da chiedersi come nasca un talento così cristallino e quali siano state le basi nella sua formazione che gli abbiano consentito di raggiungere un simile livello registico. Il segreto, forse, risiede nella profonda e autentica risonanza autobiografica del film. Chazelle stesso, un ex batterista jazz con un'esperienza simile a quella di Andrew in un'orchestra competitiva, riversa nella pellicola non solo la sua passione per la musica, ma anche il tormento, la disciplina ferrea e la dedizione quasi monastica richieste per raggiungere l'eccellenza. Non è semplice finzione, ma la traduzione cinematografica di un'esperienza vissuta sulla propria pelle, che conferisce all'opera un'innegabile autenticità e un'intensità quasi dolorosa.
Whiplash è essenzialmente un atto di amore – o forse un'esplorazione brutale dei limiti di quell'amore – per il Jazz. Tutto in questo film è codificato con il linguaggio sincopato e libertario del Jazz: dalla narrazione, che procede per strappi e improvvise accelerazioni, all’interpretazione degli attori, che si muovono in un duello improvvisato di botta e risposta, all’uso delle luci che scolpiscono gli spazi con contrasti netti e drammatici, per finire alla colonna sonora, vera e propria pulsazione vitale della storia. La musica non è un semplice accompagnamento, ma il tessuto connettivo e la metafora stessa della lotta per la perfezione. Il film cattura la paradoxa del jazz: la sua apparente libertà è il frutto di una disciplina ferrea, di una conoscenza tecnica ineccepibile che consente poi l'esplorazione di territori inesplorati.
E’ la storia di un’ossessione: quella di Andrew, giovane batterista jazz, di suonare con l’orchestra del conservatorio Shaffer di New York, un tempio dell'eccellenza musicale. Ma è un'ossessione che sfuma i confini tra ambizione e auto-distruzione, tra la ricerca della grandezza e la perdita di sé. Andrew è spinto da una fame insaziabile, una fame non di fama o ricchezza, ma di quel momento irripetibile di pura, trascendente perfezione artistica.
Andrew riesce a far parte dell’orchestra come batterista di riserva agli ordini del terribile Terence Fletcher, direttore e mentore dell’orchestra. Fletcher è una sorta di sergente Hartman in campo musicale: un tiranno magnetico e intimidatorio, la cui filosofia educativa è basata sulla convinzione che solo spingendo gli individui oltre ogni limite conosciuto si possa scatenare il loro vero potenziale. Brutalizza e tiranneggia i ragazzi del suo ensemble, umiliandoli pubblicamente, scagliando sedie, distruggendo carriere nascenti e spezzando spiriti, tutto per ottenere il massimo da loro, spremere al limite delle possibilità umane i loro giovani talenti al fine di raggiungere performance di rara perfezione esecutiva. Il paragone con il personaggio di Full Metal Jacket è calzante, ma Fletcher aggiunge un layer di subdola manipolazione psicologica e una profondità motivazionale che lo rende ancora più inquietante. Non è solo sadismo; è una devozione contorta e puritana all'arte, che crede nella sofferenza come catalizzatore della grandezza. È una riflessione cruda sulla linea sottile che separa la motivazione dall'abuso, e sulla validità etica di metodi che, pur portando a risultati eccezionali, lasciano dietro di sé un sentiero di rovine umane.
Con l’ingresso di Andrew, Fletcher si concentra su di lui, riconoscendo in quel giovane la stessa ossessiva scintilla di ambizione, e lo spinge oltre la soglia della sua resistenza fisica e mentale nel tentativo di trovare una base ritmica perfetta per la sua orchestra. La relazione tra i due si trasforma in una danza macabra di manipolazione e resilienza, un'agonistica relazione maestro-allievo che è al tempo stesso repulsiva e stranamente affascinante.
Dopo tremende difficoltà, notti insonni, mani sanguinanti e umiliazioni pubbliche, Andrew sembra trovare quell’alchimia ricercata da Fletcher, quella "sfumatura" elusiva che separa un bravo musicista da una leggenda. Ma alla prova decisiva, l’impatto della pressione e delle manipolazioni di Fletcher portano Andrew a fallire. Uscito dall’orchestra e traumatizzato, si lascerà convincere dal padre a denunciare i metodi brutali del suo insegnante, causandone l’allontanamento dal conservatorio e un apparente trionfo della giustizia.
Tempo dopo, Andrew e Fletcher si ritroveranno e sarà l’occasione di una resa dei conti dall’esito imprevedibile. Quello che sembra un concerto di routine si trasforma in una trappola tesa da Fletcher, un atto di vendetta camuffato da opportunità. Ma Andrew, anziché arrendersi, reagisce. E qui si arriva al culmine dell'opera.
Meravigliosa la scena finale, l'assolo di Andrew che pulsa come il battere ritmico del vento spandendosi nell’aria come un uragano inarrestabile. Non è solo un assolo, è una dichiarazione di guerra e al tempo stesso una resa, un dialogo silenzioso tra due titani, ognuno che spinge l'altro ai limiti estremi. La macchina da presa si avvicina sempre di più, il montaggio diventa frenetico, il sudore e il sangue si mescolano al ritmo incalzante. Andrew, con uno sforzo sovrumano, supera la sua stessa paura e si innalza, in quel momento, al di là delle aspettative e delle torturazioni di Fletcher. La sequenza è un'esplosione catartica di energia e perfezione tecnica, ma anche profondamente ambigua: la vittoria è davvero tale se raggiunta a un costo così devastante? Il gesto finale di Fletcher, un impercettibile, quasi paterno, cenno di approvazione, suggerisce una strana forma di reciproco rispetto, forse persino un amore per l'arte che trascende l'odio personale. È un finale che non offre risposte facili, ma lascia lo spettatore a riflettere sulla natura del genio, del sacrificio e del prezzo della grandezza.
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