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Chi ha Paura di Virginia Woolf?

1966

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Mike Nichols porta il teatro sul grande schermo, non limitandosi a una mera trasposizione, ma compiendo un’operazione di audace e perspicace distillazione cinematografica dalla pièce titanica di Edward Albee. Era il 1966, un’epoca di transizione per Hollywood, in cui i codici morali iniziavano a scricchiolare e si apriva uno spiraglio per un cinema più adulto, più spietatamente vero.

Si tratta di un’operazione rischiosa, quasi un azzardo produttivo e artistico, ma che si rivela di conturbante fascino e di innegabile spessore. L'audacia di Nichols non risiede solo nell'affrontare un testo così denso e verboso, ma nel plasmarlo visivamente, elevando la claustrofobia scenica a una dimensione quasi metafisica. E, certamente, il trionfo è in gran parte ascritto ai due splendidi protagonisti di questo dramma a due voci: Elizabeth Taylor e Richard Burton.

La sensazione fisica della teatralità di questo film la si prova dalle prime inquadrature: ossessive, quasi fisse, con unità di luogo, tempo ed azione che richiamano il rigore aristotelico. Eppure, Nichols, con la complicità della fotografia magistrale di Haskell Wexler – un bianco e nero crudo, scolpito, che toglie ogni patina di glamour per rivelare la nuda, quasi spettrale, realtà delle relazioni umane – riesce a trasformare le limitazioni di un’unica ambientazione notturna in un incubo claustrofobico in cui le pareti sembrano stringersi attorno ai personaggi come una morsa, amplificando la loro inesorabile discesa agli inferi domestici. Il chiaroscuro, lungi dall'essere una scelta economica, diventa uno strumento narrativo essenziale, sottolineando la moralità ambigua e le zone d'ombra psicologiche dei protagonisti.

La storia è quella della convivenza al limite delle umane possibilità tra George, un professore universitario di Storia il cui campo di studi riflette quasi ironicamente la sua incapacità di progredire e confrontarsi con il presente, e sua moglie Martha, una donna cinica, volgare e alcolizzata, il cui temperamento è tanto esplosivo quanto il suo bisogno inconfessabile di amore e riconoscimento. Tra scambi di battute al vetriolo, stilettate che perforano l'anima e furiose liti, veri e propri duelli all'ultimo sangue verbale, si dipana il loro piccolo grande dramma della vita tra le mure domestiche, un'arena di battaglia dove l'amore si è trasformato in una perversa forma di sadomasochismo psicologico. È un matrimonio che non ha mai generato vita, se non quella di fantasmi e illusioni, e che ora si nutre della distruzione reciproca, trascinando in questo vortice tossico anche la giovane e impreparata coppia di ospiti, Nick e Honey, come vittime sacrificali sull'altare della loro patologica intimità.

Un gustoso lazzo inserito nella sceneggiatura, quasi un ammiccamento auto-ironico, si palesa in una scena emblematica: mentre i due arrivano in quella che dovrebbe essere una stanza d’albergo (in realtà un sotterfugio narrativo, la casa di George e Martha è l'unico vero palcoscenico), Martha esclama che la stanza è una topaia, anzi sembra cercare una definizione più incisiva ma non sembra sovvenirle: “Era in un film, di quella ranocchia della Bette Davis. Uno dei soliti polpettoni della Warner Bros.!” Il film a cui si riferisce è “Peccato” (titolo originale: Beyond the Forest) del 1949, di George Cukor, con Joseph Cotten e, appunto, Bette Davis. Da notare che anche “Chi ha Paura di Virginia Woolf?” è prodotto dalla Warner Bros., rendendo l'omaggio ancora più stratificato e, per certi versi, sovversivo. È una battuta che non solo gioca sull'intertestualità cinematografica e sull'archetipo della "diva" melodrammatica, ma che sottilmente allude alla rottura con i melodrammi passati: questo film della Warner non è un "polpettone" evasivo, ma un'esplorazione cruda e senza filtri delle profondità dell'animo umano, un'opera che ha sfidato la censura e aperto la strada a una nuova era del cinema americano.

Ma la vera carne viva del film pulsa attraverso le interpretazioni monumentali di Taylor e Burton. La loro chimica, già leggendaria per la loro burrascosa relazione nella vita reale, qui si amplifica in una sinfonia di odio e amore disperato, di dipendenza e repulsione. La Taylor, che per il ruolo ingrassò e si imbruttì volutamente, offrendo una Martha di una potenza devastante, un vulcano di frustrazione e ferocia, ma anche di una vulnerabilità straziante che si manifesta solo nei momenti di estrema stanchezza. Burton, dal canto suo, incarna un George logorato, passivo-aggressivo, la cui intelligenza è stata soffocata da anni di recriminazioni e fallimenti, ma che, quando provocato, sa scagliare dardi avvelenati con precisione letale, rivelando una sua perversa maestria nel gioco al massacro. Non sono solo attori che recitano una parte; sono due anime dannate che si specchiano e si distruggono, in una danza macabra che è al contempo repellente e irresistibilmente magnetica.

Il film, al di là della sua narrazione circoscritta, è una mordace critica all'illusione del sogno americano, in particolare quello accademico, dove l'intelletto dovrebbe fiorire ma finisce per marcire nella mediocrità e nella disillusione. La lotta tra George e Martha è anche una lotta tra verità e illusione, tra la cruda realtà dei loro fallimenti e le fantasie consolatorie che essi si sono costruiti, culminando nella rivelazione del loro "figlio" immaginario, un atto di creazione e distruzione simultaneo che serve a proteggerli e a torturarli. Questa tematica dell'illusione è profondamente albeeiana, e risuona con il malessere esistenziale che permeava la cultura occidentale del dopoguerra, mettendo in discussione i valori borghesi e la facciata di rispettabilità. Fu, infatti, un film che non temette di mostrare la volgarità e la brutalità verbale, rompendo tabù linguistici e tematici che la rigidità del codice Hays aveva mantenuto per decenni. La sua uscita segnò un punto di non ritorno, contribuendo in modo significativo alla nascita del sistema di classificazione MPAA, sostituendo la censura preventiva con un sistema di "rating" più permissivo ma attento alle sensibilità.

In definitiva, “Chi ha Paura di Virginia Woolf?” non è solo un’opera che fornisce un prezioso contributo al cinema psicologico e introspettivo, ma un vero e proprio spartiacque culturale, un manifesto di un cinema che osava guardare oltre le apparenze. È quel tipo di film che guarda dentro l’anima delle persone e la scarnifica ai nostri avidi occhi di spettatori, non limitandosi a osservare la superficie, ma scavando nelle ferite più profonde, nei desideri inconfessati, nelle paure ataviche che animano il patologico connubio di due individui. È un’esperienza cinematografica che persiste a lungo dopo la visione, un’eco amara e potente sulla natura distruttiva e indissolubile dell'amore, quando si trasforma in una prigione di risentimento e sogni infranti, e sulla fragile illusione che spesso chiamiamo realtà.

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