
Testimone d'Accusa
1957
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Regista
Un film dove l’estro mistificatore di Wilder forza lo spettatore a dubitare di ogni personaggio, quasi che ogni parte in campo nasconda segreti inconfessabili dietro una cortina di parole mistificanti. È un saggio magistrale sulla relatività della verità, un tema ricorrente nell'opera del regista austriaco, che qui si sublima in un'orditura narrativa degna del più astuto illusionista. Wilder, infatti, non si limita a costruire un whodunit di impeccabile fattura, ma lo trasforma in una disamina della percezione e della fallibilità umana, costringendo il pubblico a mettere in discussione non solo l'integrità dei protagonisti, ma la propria stessa capacità di discernimento. L'eco di questa sfiducia nel racconto lineare si ritrova in capolavori come Viale del Tramonto o La Fiamma del Peccato, dove la narrazione è intrinsecamente viziata da interessi, delusioni o disperazioni.
Tratto da un lavoro teatrale di Agatha Christie e magistralmente interpretato da uno straordinario Charles Laughton (nei panni di un avvocato ambiguo e malaticcio), quest’opera spicca per una suspense catatonica. Laughton, con la sua inconfondibile stazza e il suo incedere flemmatico, dà vita a Sir Wilfrid Robarts, un principe del foro la cui brillantezza intellettuale è messa a dura prova da una salute cagionevole. La sua performance è un tour de force di arguzia sottile e fragilità ostentata, una sinfonia di tic nervosi e saggezza distillata. Il suo rapporto quasi simbiotico con la meticolosa infermiera, interpretata dalla moglie nella vita reale Elsa Lanchester, aggiunge strati di commedia nera e tenerezza inaspettata, un contrappunto umano alla fredda logica giudiziaria. La trasposizione cinematografica della pièce teatrale della "Regina del Giallo" è un esercizio di stile notevole, poiché Wilder, pur rispettando la struttura intricata e i colpi di scena della Christie, vi infonde il suo acuto cinismo e una profondità psicologica che va oltre la mera risoluzione dell'enigma. La suspense non è generata da improvvisi spaventi, ma da una progressione implacabile di rivelazioni e inganni, un crescendo di tensione intellettuale che tiene lo spettatore incollato alla poltrona, quasi in trance.
La storia è incentrata su un’aspra battaglia dialettica combattuta in un’aula di tribunale, che si erge a vero e proprio palcoscenico per un dramma umano di proporzioni epiche. L'ambiente claustrofobico del tribunale, filmato con precisione chirurgica da Wilder, diventa un crogiolo dove la verità viene forgiata e ritorta, piuttosto che semplicemente scoperta. Non si tratta solo di un legal thriller, ma di una complessa indagine sulla natura della giustizia, della moralità e della performance.
Si narra la vicenda giudiziaria di Leonard Vole, un giovane affascinante e apparentemente ingenuo, arrestato con l’accusa di essere l’assassino di una ricca vedova di mezza età, Emily French. La sua presunta innocenza è messa in discussione da indizi schiaccianti e da una figura enigmatica che si rivelerà cruciale.
Al suo fianco sul banco della difesa Sir Wilfrid, in passato principe del foro ed ora fortemente debilitato da un recente attacco di cuore. Il suo ritorno in campo è una sfida non solo legale, ma personale, una sorta di canto del cigno per un maestro la cui mente, seppur annebbiata dalla malattia, rimane tagliente come una lama. La sua abilità nel districarsi tra le pieghe della legge e della psicologia umana è il motore di gran parte della suspense, poiché ogni sua mossa, ogni sua frase, è calcolata per demolire le certezze dell'accusa e instillare il dubbio.
Grande sarà lo stupore dei due quando la moglie di Vole, Christine Helm, interpretata con gelida maestria da Marlene Dietrich, accetterà di deporre come testimone per la pubblica accusa. L'ingresso in scena della Dietrich è un momento cinematografico iconico: il suo volto impassibile, la sua voce metallica, la sua aura di femme fatale la rendono la perfetta incarnazione dell'ambiguità. La sua testimonianza, apparentemente dannosa per il marito, getta le basi per una serie di ribaltamenti che sfidano ogni aspettativa. La sua performance è un capolavoro di controllo, un'esibizione di distacco che cela un abisso di emozioni e intenzioni.
Ma sarà solo l’inizio di un fuoco di fila di colpi di scena che culmineranno in un epilogo imprevedibile. Wilder non si accontenta di un semplice "chi è stato", ma costruisce un meccanismo a orologeria di falsi indizi e rivelazioni sconvolgenti, fino a un finale che è un autentico pugno nello stomaco, una beffa ironica e amara che rovescia completamente la prospettiva dello spettatore. È un finale che resta impresso, non solo per la sua originalità, ma per la sua capacità di rimettere in discussione tutto ciò che si era creduto fino a quel momento. Questa struttura a matrioska, dove ogni verità si rivela un ulteriore inganno, è la cifra distintiva del genio narrativo di Wilder.
Wilder giganteggia e dimostra di essere un grande uomo di cinema anche nel cimentarsi con un genere non propriamente suo: il legal thriller. Eppure, la sua cifra stilistica – l'ironia tagliente, la disillusione verso la natura umana, la predilezione per personaggi moralmente ambigui e per trame ricche di sottotesti – si sposa perfettamente con le convenzioni del genere, elevandole a vette inesplorate. Il tribunale diventa la sua ennesima arena per esplorare le ipocrisie sociali e le zone d'ombra dell'anima umana. Il risultato è ovviamente di livello eccelso, come per quasi ogni suo lavoro, un classico intramontabile che continua a catturare e sorprendere, un monumento alla potenza del racconto e alla capacità del cinema di ingannare e illuminare allo stesso tempo.
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