Frankenstein Junior
1974
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Regista
Mel Brooks estrae dal cilindro Frankenstein Junior, questa devastante e sardonica commedia dove tesse la parodia di vecchi film horror, e tout court del cinema stesso, con invidiabile leggerezza. Un'operazione che va ben oltre il mero divertissement per addentrarsi in un omaggio affettuoso e al contempo dissacrante al canone gotico della Universal Studios. Brooks non si limita a prendere in giro; egli disseziona il DNA stesso del genere horror, dimostrando una profonda conoscenza e un amore viscerale per il materiale che si accinge a manipolare con geniale irriverenza. A differenza di molte parodie che si affidano a gag superficiali, Frankenstein Junior opera su più livelli: è una lezione magistrale di tempi comici, un pezzo d'epoca meticolosamente ricostruito e, sorprendentemente, un commento acuto sull'atto stesso della creazione cinematografica.
Ma non si tratta soltanto di un mero esercizio comico, perchè in questo film c’è una sottile ricerca filologica sulle ambientazioni legata ad una tecnica registica che impreziosisce il valore artistico dell’opera. La decisione di girare in un glorioso bianco e nero, nonostante le iniziali resistenze dello studio, non fu affatto una mera scelta stilistica nostalgica; fu un imperativo artistico, un omaggio diretto ai fondativi horror Universal di James Whale. Il direttore della fotografia Gerald Hirschfeld impiegò magistralmente l'illuminazione in chiaroscuro, riecheggiando le ombre drammatiche e i primi piani espressivi che definirono l'estetica originale. Ogni set, dalle tremolanti lampade a gas del laboratorio al minaccioso castello gotico, sembra autenticamente strappato agli anni '30. Questa meticolosa attenzione ai dettagli, inclusa l'utilizzo di autentiche strumentazioni di laboratorio ideate da Kenneth Strickfaden per il Frankenstein del 1931, eleva il film oltre la semplice commedia. Lo trasforma in un anacronismo vivente e pulsante, un restauro amorevole che contemporaneamente deride e celebra il suo materiale di partenza. È proprio questa profonda immersione nel vocabolario formale del genere che rende la parodia così devastantemente efficace; non si può sovvertire ciò che non si comprende veramente.
E comunque c’è veramente di che ridere a crepapelle in questo film realizzato in uno splendido bianco e nero e con la partecipazione dei compianti Gene Wilder e Martin Feldman che formano una coppia di collaudata vis comica (Wilder partecipò anche alla stesura della sceneggiatura con brillante risultato). Wilder non solo porta in scena il suo dottor Frederick Frankenstein con un'isteria controllata e una genialità al limite della follia, ma la sua impronta sulla sceneggiatura è evidente nella profondità dei dialoghi e nella struttura comica, spesso caratterizzata da un crescendo di assurdità. Accanto a lui, Martin Feldman, con i suoi occhi sporgenti e il tempismo comico ineguagliabile, crea un Igor iconico, le cui battute fulminanti e la cui fisica presenza – si pensi alla gobba che magicamente "si sposta" – sono ormai scolpite nell'immaginario collettivo. Ma il trionfo corale è garantito da un cast di supporto eccezionale: Cloris Leachman, memorabile come la minacciosa Frau Blücher (il cui nome fa impazzire i cavalli in un classico gag brookiano), Teri Garr nei panni della seducente e ingenua Inga, e Madeline Kahn, irresistibile come la viziata e isterica Elizabeth, la cui voce, modulata per passare da acuti striduli a sussurri lascivi, è una lezione di comicità vocale. Ognuno di loro non è solo una spalla, ma un pilastro che sostiene l'edificio della commedia, dimostrando una sinergia che va oltre la semplice recitazione e sconfina nella vera e propria alchimia teatrale.
La storia riprende il Frankenstein della Shelley rivisitato in chiave comico-satirica: il dottor Frankenstein, nipote del celebre scienziato, è un affermato neurochirurgo che vive negli Stati Uniti e rinnega il nome del nonno e la sua fama di scienziato pazzo. Viene richiamato nel castello avito in Transilvania per un’eredità. Una volta scoperto il laboratorio che fu di suo nonno e ritrovati gli strumenti con i quali l’avo diede vita alla creatura, si lascia trasportare dagli eventi e decide di concludere l’esperimento di suo nonno. Con l’aiuto di un’assistente un po’ bislacco richiamerà in vita il mostro Frankenstein ma con il cervello sbagliato. Sotto la patina irresistibile della commedia, il film affronta con sorprendente acume temi profondi e intramontabili. La vicenda del dottor Frederick Frankenstein, che rinnega ostinatamente il nome del nonno per poi soccombere alla medesima, irresistibile, follia creativa, è una brillante esplorazione della genetica del genio (e della pazzia). La linea sottile tra ossessione scientifica e hybris è un filo rosso che lega la parodia alla tragedia originale di Shelley, ponendo interrogativi sulla responsabilità dell'uomo di fronte alle proprie creazioni. Il mostro stesso, lungi dall'essere una semplice caricatura, diviene un veicolo per esplorare la natura dell'alterità e il bisogno di accettazione. La sua evoluzione da creatura primordiale a "gentiluomo" che cerca disperatamente di integrarsi nella società è commovente quanto esilarante, trasformando il cliché dell'orrore in una metafora sulla marginalizzazione e la ricerca di identità. È l'eterna storia del "diverso" che cerca un posto in un mondo che non lo comprende, declinata con una sensibilità inaspettata per un film comico.
Decine le scene memorabili: dal nome di Frau Blücher, capace di far imbizzarrire i cavalli in una gag che è diventata un marchio di fabbrica, alla scelta del cervello da inserire nell’energumeno da parte di Igor che si risolve in un dialogo esilarante tra il professore e il suo assistente ("Ehm, ti dispiacerebbe dirmi di chi era il cervello che gli ho messo dentro? A.B. qualcosa! A.B. qualcosa”? Ab-norme, sono quasi sicuro sia quello il nome…"), un esempio sublime di comicità verbale e di incomprensione surreale che gioca sull'ambiguità fonetica e la disperazione del Professore. L'esclamazione "Si può fare!" urlata di fronte alla possibilità di riportare in vita l'essere inerte, non è solo una citazione celebre, ma un grido di liberazione dal proprio retaggio, un'accettazione della follia che porta alla creazione. Ma la vera gemma, un momento di pura genialità che fonde umorismo e pathos in modo indissolubile, è la sequenza di "Puttin' on the Ritz". Il Mostro che, in frac e cilindro, si esibisce in un numero di tip tap al fianco del suo creatore, non è solo un virtuosismo tecnico e interpretativo che spezza ogni convenzione di genere; è il culmine di tutti i temi del film. È il tentativo disperato di nobilitare l'ignobile, di normalizzare il mostruoso, di presentare al mondo ciò che è stato rifiutato. La sua tragica conclusione, con il pubblico terrorizzato e il Mostro ferito, amplifica il messaggio sulla difficile accettazione dell'altro e sull'intrinseca solitudine della creatura. E ancora, l'incontro agrodolce con il cieco eremita (un magnifico Gene Hackman), che si rivela un campionario di sfortunati incidenti domestici – tra zuppe bollenti versate in grembo e tabacco bruciato – è un rovesciamento geniale del cliché del buon samaritano, trasformando il patetico in esilarante, e sottolineando l'assurdità della condizione umana. Brooks non si limita a parodiare; egli sublima, eleva e, in un certo senso, rende ancora più eterne le leggende che intende deridere, consolidando la sua opera non solo come una delle più grandi commedie di tutti i tempi, ma anche come un'affascinante riflessione sulla natura del genio, della mostruosità e dell'ineluttabile ricerca di appartenenza.
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