Zelig
1983
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Regista
Il geniale e irrequieto Woody Allen alle prese con un’opera biografica girata in forma di documentario.
Parodistico, ironico, deliziosamente sopra le righe: un film che diverte sotto la scorza seriosa del documento storico. Ma "Zelig" non è solo una brillante commedia; è un'opera antesignana, quasi profetica, nell'esplorazione e nella decostruzione del genere mockumentary. Ben prima che film come This Is Spinal Tap o Forgotten Silver solidificassero il genere nel panorama cinematografico, Allen ne intuì le vertiginose potenzialità non solo comiche, ma anche critiche, utilizzandolo per interrogare la natura stessa della verità, della storia e della costruzione mediatica dell'individuo. La sua maestria risiede nel saper manipolare la forma con una precisione quasi scientifica, elevando la parodia a uno strumento di indagine filosofica.
La presenza di un narratore che descrive le abitudini del protagonista come fossero fenomeni biologici darwiniani, i dialoghi sotto forma d’intervista, le scene filmate come fosse materiale di repertorio: tutto questo contribuisce a dare a quest’opera un aspetto pomposo e scientifico, ma sotto la corazza dell’erudizione si muove il feroce spirito di Woody Allen che fustiga costumi e abitudini umane con spietata ironia. Questa meticolosa emulazione dello stile documentaristico degli anni '20 e '30, dalla grana della pellicola al tono declamatorio delle voci narranti, non è un mero espediente stilistico. È un commento sagace sulla malleabilità della narrazione storica, sulla capacità dei media di plasmare e persino inventare la realtà. Allen non si limita a farci ridere della pomposità accademica; ci spinge a riflettere su quanto facilmente accettiamo ciò che ci viene presentato come "fatto" o "verità storica", specialmente se veicolato con l'autorità di voci e immagini presumibilmente autentiche.
E’ la storia di un personaggio grottesco, Leonard Zelig, che negli anni ’20 diviene famoso per le sue doti da camaleonte umano, riuscendo a mimetizzarsi perfettamente con la cultura e l’aspetto fisico dei suoi interlocutori. Sarà studiato come una cavia da laboratorio da un team di scienziati tra cui la dottoressa Eudora Fletcher che prende a cuore il suo caso scavando in profondità nella multiforme personalità di Zelig. Ne nascerà un quadro sconcertante sulle capacità dell’uomo di auto-riprogrammarsi a seconda degli habitat in cui è inserito. Ma la condizione di Zelig trascende la semplice metafora della conformità sociale; essa diviene una pungente allegoria della perdita di identità nell'epoca della massificazione e della pressione a omologarsi. Zelig, con la sua inafferrabile essenza, incarna l'angoscia esistenziale dell'individuo moderno che, privo di un nucleo interiore saldo, si dissolve nel contesto, assumendo le sembianze di ciò che lo circonda pur di essere accettato. È la paura del non-essere, del non-appartenere, che lo spinge a trasformarsi da medico ebreo a ungherese in un raduno nazista, da nero musicista jazz a un bianco intellettuale.
La figura della dottoressa Fletcher, interpretata con vibrante intelligenza da Mia Farrow, diventa la controparte etica e scientifica di questa deriva. Il suo approccio empatico e la sua determinazione a scavare nelle radici del trauma di Zelig rappresentano la ricerca di autenticità in un mondo che sembra premiare l'inautentico. La loro relazione, intrisa di una tenerezza inaspettata, è il cuore emotivo del film, un balsamo per l'anima inquieta di Zelig e, per estensione, per la nostra. L'indagine psicoanalitica non è qui solo un espediente comico, ma un'esplorazione seria, benché satirica, del subconscio e delle sue fragilità. Il film, in fin dei conti, è una disamina dell'identità: non ciò che siamo, ma ciò che scegliamo di essere o che siamo costretti a diventare. La parabola di Zelig culmina, amaramente, nel suo riemergere come figura pubblica, un eroe della singolarità, solo per vederlo poi, nella scena finale, ricadere nelle sue tendenze mimetistiche davanti all'ascesa del Nazismo. Questa conclusione agrodolce suggerisce che, per quanto l'individuo possa cercare la propria autenticità, le forze di omologazione e di isteria collettiva – simboleggiate dalla brutalità del fascismo incipiente – sono sempre in agguato, pronte a risucchiare l'io in una pericolosa, camaleontica conformità.
Tutto è delizioso in questo film: l’uso di un pomposo bianco e nero in stile vecchio documentario della BBC, la canzone “Chameleon Days” di Dick Hyman in perfetto stile anni venti, l’interpretazione autoironica di Allen e della Farrow. Ma il "delizioso" qui si veste anche di una prodigiosa inventiva tecnica. La riproduzione del bianco e nero d'epoca, curata con maniacale perfezione dal direttore della fotografia Gordon Willis – il "Prince of Darkness" noto per i suoi chiaroscuri in Il Padrino e nei film alleniani precedenti – non è solo una scelta stilistica, ma un vero e proprio tour de force. La sfida più ardua fu l'integrazione di Allen e Farrow in autentiche riprese d'archivio degli anni '20 e '30, un'impresa che richiese tecniche pionieristiche di sovrapposizione e manipolazione cinematografica, rendendo "Zelig" un precursore degli effetti speciali visivi che oggi diamo per scontati. Vederli dialogare con personaggi storici reali, o comparire accanto a Hitler e Mussolini, è un'esperienza surreale che amplifica il genio parodistico e la critica alla manipolazione mediatica. E non meno fondamentale è il contributo musicale di Dick Hyman, che non si limitò a "Chameleon Days" ma compose un'intera partitura di brani originali nello stile delle orchestre jazz e delle big band dell'epoca, conferendo al film un'autenticità sonora quasi disarmante e contribuendo a quel senso di immersione totale nel passato. La presenza di veri intellettuali e figure pubbliche dell'epoca, come Susan Sontag, Saul Bellow, Bruno Bettelheim o Irving Howe, che intervengono nel finto documentario, eleva ulteriormente il livello della parodia, prestando credibilità e peso alla finzione, e al contempo offrendo un sottile meta-commento sul ruolo degli "esperti" nella costruzione della narrativa pubblica.
In definitiva un cult dalla purezza adamantina in cui si passa dal sommesso sorriso al riso più sguaiato con alcune battute memorabili quali: “Ho scritto molti saggi sulla psicanalisi, ho lavorato con Freud a Vienna. Ci dividemmo sull’invidia del pene: Freud pensava di doverla limitare alle donne”. Questa battuta, apparentemente una semplice gag, è in realtà la quintessenza dell'umorismo alleniano: un'esplosione di intelligenza che smonta i totem della cultura, della scienza e della psicanalisi con un'ironia corrosiva. "Zelig" non è solo una commedia brillante o un esperimento formale audace; è un'opera d'arte complessa e stratificata, un saggio filmico sull'identità, la verità, la conformità e la perenne ricerca di autenticità in un mondo sempre più propenso alla mimesi. La sua risonanza culturale perdura, testimoniando la capacità di Allen di cogliere, con la sua solita acutezza malinconica, le nevrosi eterne dell'animo umano, vestendole di una comicità irresistibile e di un'eleganza stilistica impareggiabile. Un capolavoro senza tempo che, come il suo protagonista, continua a mutare forma nella percezione, rivelando sempre nuove sfaccettature e significati.
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