Zombi
1978
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Regista
Un'apocalisse non ha necessariamente il suono assordante di una detonazione nucleare o il fragore biblico di una terra che si squarcia. A volte, l'apocalisse è un ronzio. Il ronzio sommesso dei neon in un corridoio deserto, il motivetto insulso di una filodiffusione che nessuno spegnerà mai più, e il gemito collettivo, famelico e senza scopo di un'umanità ridotta a puro istinto primordiale. L'apocalisse di George A. Romero, nel suo capolavoro definitivo Zombi (titolo originale: Dawn of the Dead), ha l'odore di disinfettante e popcorn stantio, e la sua arena finale non è un campo di battaglia, ma una cattedrale del consumismo: il centro commerciale.
Se La Notte dei Morti Viventi era un Kammerspiel in bianco e nero, un'incisione espressionista sulla fragilità del nucleo familiare e sulla paranoia della Guerra Fredda confinata in una fattoria isolata, Zombi è il suo logico e grandioso passo successivo. È un affresco barocco, sgargiante e brutale, dipinto con i colori primari del Technicolor e il rosso iperrealista del sangue Kensington Gore di Tom Savini. Romero sposta l'obiettivo dalla micro-società all'intera civiltà occidentale, e il suo verdetto è tanto spietato quanto esilarante. La civiltà non collassa sotto il peso di un'ideologia o di un nemico esterno; semplicemente, si divora da sola, pezzo per pezzo, in un'orgia di desiderio insaziabile.
Il film orchestra la sua tesi con una lucidità quasi accademica. I quattro sopravvissuti – due agenti della SWAT, un pilota di elicotteri e la sua compagna giornalista – trovano rifugio nel Monroeville Mall, un Eden artificiale traboccante di ogni bene materiale immaginabile. La prima parte della loro permanenza è una fantasia post-apocalittica: liberi dalle costrizioni del denaro e della società, possono avere tutto. Si vestono con abiti firmati, mangiano cibo gourmet, giocano ai videogiochi. È la realizzazione ultima del sogno americano, una utopia capitalista senza più capitalisti. Ma è una trappola, una prigione dorata. Come spiega uno dei personaggi, i morti tornano al centro commerciale per istinto, per un vago ricordo di un luogo che "era importante nelle loro vite". Questa non è una semplice battuta, è la chiosa filosofica dell'intera opera. I non-morti, con i loro occhi vitrei e il loro incedere claudicante, non sono altro che l'epifenomeno della nostra stessa condizione: consumatori fino alla fine, e anche oltre. La loro fame di carne è una metafora appena velata della nostra fame di oggetti, di status, di stimoli continui.
Romero, con un'arguzia che lo apparenta più a un Jonathan Swift che a un regista horror convenzionale, mette in scena un girone infernale che Dante avrebbe trovato fin troppo familiare. Il centro commerciale è un Limbo moderno, dove le anime non sono punite per i loro peccati, ma sono condannate a ripeterli in eterno. I sopravvissuti, inizialmente, non sono migliori. Diventano i nuovi dei di questo Olimpo di plastica, ma la loro divinità è vuota, patetica. Stephen "Flyboy" Andrews, in particolare, incarna la nevrosi del possesso; la sua disperata affermazione di controllo ("È il nostro!") è la parodia tragica del concetto di proprietà privata di fronte all'estinzione. Roger, l'adrenalina-dipendente, trova nella "pulizia" del centro commerciale un brivido che lo consuma. Peter, il pragmatico e cinico, è l'unico a comprendere la vacuità del loro regno, fungendo da Virgilio in questa discesa agli inferi del merchandise.
E poi c'è Francine. In un'epoca in cui i personaggi femminili nel cinema di genere erano spesso relegati al ruolo di vittima urlante, la sua evoluzione è un sottotesto di un'importanza capitale. Inizia come una figura passiva, dipendente, ma è lei a imporre le regole della sopravvivenza ("Non sarò una di quelle che si chiudono in una stanza a piangere"), a imparare a pilotare l'elicottero, a rappresentare, infine, l'unica vera speranza di un futuro non definito dal passato. La sua gravidanza non è solo un espediente narrativo; è la domanda radicale che il film pone: che senso ha far nascere una nuova vita in un mondo che ha perso ogni significato?
L'arrivo della banda di motociclisti nella seconda metà del film è un colpo di genio narrativo che eleva Zombi a un livello superiore di analisi sociale. Se i morti viventi sono una forza della natura, un disastro acefalo, i bikers sono l'incarnazione del nichilismo umano. Non cercano di sopravvivere, ma di distruggere. Saccheggiano, vandalizzano e uccidono per il puro piacere anarchico di farlo, in una sorta di carnevale grottesco e violento. La loro irruzione demolisce l'illusione di sicurezza dei protagonisti e svela la verità più amara: il vero nemico dell'uomo non è il mostro, ma l'uomo stesso. La celebre scena della torta in faccia a uno zombie è l'apice di questa follia ludica, un momento di comicità slapstick che si trasforma istantaneamente in orrore puro, dimostrando come il confine tra i due sia labile, quasi inesistente.
Tutto questo non avrebbe la stessa potenza senza due elementi cruciali: il lavoro di Tom Savini e la colonna sonora. Savini, reduce dalla sua esperienza come fotografo di combattimento in Vietnam, non si limita a creare effetti speciali; traduce il trauma della guerra reale in un linguaggio visivo indimenticabile. Il suo gore non è mai gratuito. È grafico, anatomico, quasi documentaristico nella sua brutalità. Ogni ferita, ogni smembramento, ha un peso specifico, un realismo tattile che rende la minaccia tangibile e sconvolgente. La colonna sonora, poi, è un capolavoro di dissonanza cognitiva. Romero alterna magistralmente le partiture martellanti e ipnotiche dei Goblin – che trasformano le scene d'azione in una sorta di balletto macabro – con la musica d'ambiente del centro commerciale, la "Muzak" insipida e onnipresente. Questo scontro sonoro crea un effetto straniante, una schizofrenia uditiva che riflette perfettamente la follia della situazione: l'orrore più estremo si consuma sulle note di una melodia pensata per pacificare e incoraggiare gli acquisti. È come assistere a un quadro di Francis Bacon accompagnati da un jingle pubblicitario.
Zombi è un'opera meta-testuale che riflette sulla natura stessa dello spettacolo. Noi spettatori siamo complici. Siamo affascinati dalla violenza, sedotti dalla fantasia di un mondo senza regole, proprio come i personaggi. Il film è una distopia ballardiana in cui l'architettura del quotidiano diventa il palcoscenico per il collasso psicologico. È un'analisi spietata, che precede di decenni le opere di autori come Don DeLillo o David Foster Wallace, sulla vacuità di una società che ha sostituito i valori con i beni di consumo e la comunità con la transazione commerciale.
Oggi, a distanza di decenni, l'assunto di Romero non ha perso un'oncia della sua rilevanza. Anzi, è diventato profetico. Il centro commerciale non è più solo un luogo fisico; è diventato uno stato mentale, un paradigma digitale. Scorriamo infiniti feed sui nostri schermi, consumando immagini, notizie e prodotti con la stessa fame ottusa dei morti di Romero, muovendoci su e giù per le scale mobili virtuali della nostra esistenza. L'immagine finale dei morti viventi che vagano senza meta tra i negozi, bloccati su una scala mobile che sale verso il nulla, non è solo la chiusura di un film horror. È lo specchio più crudele e accurato della nostra modernità. Un requiem per un mondo che, forse, era già morto molto prima che i cadaveri iniziassero a camminare.
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