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A History of Violence

2005

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La deriva del percepibile e lo stallo sconcertante tra apparenza e realtà, sono questi i temi con cui Cronenberg gioca a comporre il suo nuovo film, e lo fa attuando una rilettura del genere thriller sovvertendone il canone. Cronenberg non si limita a decostruire il thriller; egli lo reinventa, trasmutando la tensione esterna in un'inquietudine endemica, che scaturisce dalle profondità dell'animo umano. L'inquietante dialettica tra il manifesto e il latente, tra la facciata di normalità borghese e l'abisso primordiale della violenza, è una costante nel suo cinema, qui declinata con una lucidità quasi chirurgica. Non è la mutazione fisica a fare da padrona, come in molte delle sue opere precedenti che sondavano i limiti del corpo e della carne (Videodrome, Scanners, La Mosca), bensì la metamorfosi psicologica, l'emersione di una "memoria muscolare" della crudeltà, che erode il sé costruito e rivela il "mostro" interiore che si cela sotto la patina della civiltà.

Un Cronenberg, va detto, come al solito eclettico e sorprendente che affronta il problema dell’identità umana evidenziandone il tema dapprima con il classico andamento del thriller, quindi con i contorni subdoli dello psicodramma. Questa evoluzione tematica segna una fase matura e forse più filosofica della sua carriera, dove l'horror non è più solo viscerale ma si fa esistenziale. Il problema dell'identità umana viene qui dissezionato con la precisione di un entomologo, rivelando come essa non sia un monolite inalterabile, ma un'entità fluida, plasmabile dalle circostanze e dai propri demoni repressi. "A History of Violence" diventa così un'indagine spietata sulla natura umana, un quesito morale posto sotto la lente d'ingrandimento: la violenza è una scelta o un istinto primordiale ineludibile, trasmesso, forse, persino geneticamente? Il film suggerisce una risposta scomoda, radicata nel darwinismo sociale e nella persistenza di pulsioni ancestrali, celate sotto il vernice della rispettabilità.

Eccellente la prova di Viggo Mortensen nei panni del protagonista, un attore che, sotto la guida di Cronenberg (con cui stringerà un sodalizio artistico fruttuoso, culminato in opere altrettanto intense come Eastern Promises e A Dangerous Method), dimostra una versatilità straordinaria. La sua capacità di passare da una serena paterna bonarietà a una fredda, calcolatrice brutalità è agghiacciante, e incarna perfettamente la dualità al cuore del film. Ma non è solo Mortensen a brillare; l'intero cast offre performance di rara intensità. Maria Bello, nel ruolo di Edie, la moglie di Tom, è fenomenale nel rappresentare lo shock e il disorientamento di fronte allo svelarsi di una verità insopportabile; la sua reazione viscerale e complessa al cambiamento del marito è il vero barometro emotivo della narrazione. E poi ci sono i volti del passato, sinistri e ineludibili: Ed Harris, con la sua calma minacciosa e gli occhi penetranti di Carl Fogarty, e un William Hurt che, in una manciata di minuti di inquietante e suadente malvagità nel ruolo di Richie Cusack, riesce a imprimere un marchio indelebile, regalandoci uno dei cammei più memorabili del cinema contemporaneo e ottenendo una meritata nomination all'Oscar.

La storia è tratta da una graphic novel di John Wagner ed è incentrata su Tom Stall, tranquillo e amabile padre di famiglia, che gestisce un ristorante in una sperduta cittadina dell’Indiana, Millbrook. L'apparente idillio della provincia americana, un archetipo narrativo che Cronenberg demolisce con spietata efficacia, è il palcoscenico di questa tragedia moderna. La sua vita sarà sconvolta da un tentativo di rapina di due balordi, un evento casuale che funge da catalizzatore, scoperchiando un vaso di Pandora di violenza latente. L’uomo riuscirà ad uccidere i due rapinatori ma il suo quieto vivere andrà in pezzi con l’avvento di una sorta di circo mediatico per celebrare l’eroe locale. Questo momento, la trasformazione da anonimo cittadino a celebrità improvvisata, è cruciale: è qui che la maschera di Tom inizia a incrinarsi sotto il peso della notorietà, rivelando non la sua vera identità, ma la sua forzata negazione di essa.

L’eco delle sue gesta giungono anche a Philadelphia dove un potente criminale si mette sulle sue tracce, un'ombra incombente che porta con sé non solo la minaccia fisica, ma il peso insopportabile di un passato che rifiuta di restare sepolto. La moglie di Tom comincerà a chiedersi chi sia l’uomo che le sta accanto da una vita, e questa interrogazione non è solo sua, ma diventa la nostra, di spettatori, costretti a riconsiderare l'essenza della persona e la possibilità di redenzione o di un cambiamento radicale. Il film ci interroga sulla veridicità dei legami umani quando le fondamenta su cui sono costruiti si rivelano essere una finzione.

Ottimo il lavoro di Cronenberg sul tessuto narrativo, dipanato con maestria hitchcockiana verso una serie sempre più intricata di dubbi e incertezze. Non è solo la suspense a ricordare Hitchcock, ma l'abilità di prendere l'uomo comune e gettarlo in circostanze straordinarie, osservando come la sua psiche si sgretoli sotto la pressione. Cronenberg però aggiunge una brutalità e una visceralità nella rappresentazione della violenza che trascende il "MacGuffin" hitchcockiano, rendendola non un pretesto narrativo, ma il fulcro tematico, la sostanza stessa dell'essere. La regia è implacabile, asciutta, priva di retorica, eppure capace di una potenza emotiva devastante, amplificata dalla fotografia di Peter Suschitzky, che illumina i volti e gli interni con una luce quasi clinica, che non perdona nulla. Le scene di violenza sono brevi, improvvise, realistiche fino all'orrore, e mai gratuite, funzionali a mostrare l'immediata e brutale conseguenza delle azioni, e la facilità con cui l'uomo può passare dalla calma alla furia omicida.

Tom, man mano che si snodano gli eventi, è oggetto di una metamorfosi psicologica a seconda di chi sta interagendo con lui, quasi un camaleonte morale costretto a mostrare le sue vere, terribili, pelli. Questa fluidità dell'identità culmina in uno dei finali più enigmatici e inquietanti del cinema contemporaneo, un non-finale che non offre catarsi, ma solo l'eco raggelante di ciò che è stato rivelato. Lo spettatore ad un certo punto deve fare una scelta e prendere una strada ermeneutica, se sia quella giusta lo saprà soltanto alla fine, o forse mai del tutto. Cronenberg ci lascia con un'ambiguità che è la sua firma stilistica, un monito sulla fragilità delle costruzioni sociali e sulla tenacia indomita dell'istinto. "A History of Violence" non è solo un thriller avvincente, ma un saggio filosofico sulla violenza, sulla maschera sociale e sull'ineludibile confronto con il proprio sé più oscuro. Un'opera che, a distanza di anni, continua a riverberare con la sua forza perturbante, un vero e proprio pugno nello stomaco e un'affascinante, seppur scomoda, riflessione sulla natura umana.

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