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Un Condannato a Morte è Fuggito

1956

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Forse uno dei più bei film a tema carcerario mai girati, quest'opera di Robert Bresson del 1956 incanta per il suo minimalismo, la sua essenzialità, la sua scarnificazione iconografica fino all'osso del significato. Un condannato a morte è fuggito non è semplicemente un film, è la summa del credo del suo autore, un'opera che Bresson non definirebbe "cinema" ma, usando il suo termine preferito, "cinematografo". Bresson trasfonde in questo film ogni stilla della sua filosofia cinematografica, ossia la disintegrazione dei cardini su cui ogni opera cinematografica veniva a quel tempo edificata: recitazione, montaggio e colonna sonora. Per Bresson, il cinema era teatro filmato, un'arte impura e contaminata dalla performance. Il suo cinematografo, invece, era una forma d'arte nuova, pura, che cercava la verità non nell'enfasi dell'attore, ma nella relazione tra le immagini e i suoni. Bresson porta avanti un cinema antropocentrico, dove l'uomo è al centro della scena e dove ogni orpello, ogni artificio dev'essere ridotto all'essenziale per mantenere un focus ossessivo sul personaggio in scena. Per raggiungere questo scopo, non usava attori, ma "modelli", persone comuni costrette a ripetere gesti e parole fino a svuotarli di ogni intenzione recitativa, fino a renderli puri automi. È in questo automatismo, secondo Bresson, che si cela una verità più profonda, un'emozione che emerge involontariamente, quasi per grazia. La recitazione diviene quanto di più lontano possa esserci dall'enfasi, i dialoghi sono quasi monosillabici. La colonna sonora, salvo per le pause strazianti del Kyrie dalla Messa in Do minore di Mozart, è affidata al ruolo di sommesso commento alle immagini, nulla di più che una suggestione sussurrata. Il montaggio non è che altro che una didascalica scansione cronologica della narrazione. Un cinema potente e verista che non manca di affascinare, poiché instaura un patto solenne tra regista e spettatore: la promessa della Verità denudata da ogni finzione, come recita la didascalia iniziale: "Questa storia è vera. La racconto senza artifici".

Tratto da un racconto autobiografico di André Devigny, partigiano della resistenza francese catturato ed evaso dal carcere di Montluc a Lione, Un Condannato fu accolto trionfalmente dalla critica con l'assegnazione del premio per la miglior regia a Cannes. Fontaine è un membro della resistenza francese catturato dopo aver tentato di eseguire un attentato. L'uomo viene tradotto in prigione dove, durante l'interrogatorio, viene brutalmente malmenato dalla Gestapo prima di essere rinchiuso in cella. Lo spazio angusto e il senso di oppressione esercitano un forte senso di abbattimento su Fontaine che tuttavia riesce presto ad allontanare grazie al pensiero di come evadere da quel luogo al più presto. Quella che segue non è una semplice cronaca di un'evasione, ma una parabola sulla fede e sulla grazia, intrisa di un rigore quasi giansenista. Il microcosmo carcerario è fatto di gesti ripetuti, di sussurri e gesti d'intesa lontani dagli sguardi delle guardie, di vite che incrociano i propri destini attraverso il tritacarne della Storia. Fontaine stringe amicizia con altri detenuti prima di vedere alcuni di loro ferocemente abbattuti dalla giustizia sommaria dell'invasore. Accortosi che la porta di legno della propria cella può cedere, l'uomo si adopera giorno dopo giorno, con l'ausilio di un cucchiaio affilato, a scavarne i pannelli centrali per poterne ricavare un'apertura. Fabbrica anche delle corde e dei ganci utilizzando materiale di fortuna che recupera nella sua cella. Bresson si sofferma su questo processo con una precisione quasi feticista. Le sue mani, più che il suo volto, diventano le protagoniste. È un cinema tattile, scultoreo, che celebra l'ingegno umano e la perseveranza. Quando tutto è pronto per l'evasione, gli viene affidato un giovane compagno di cella, François Jost, apparentemente un disertore dell'esercito francese collaborazionista. Fontaine, prossimo ormai alla fucilazione, deve decidere al più presto se fidarsi del ragazzo, rischiando il tradimento, o ucciderlo per proteggere il suo proposito di libertà.

Un film che entra nell'immaginario con la micidiale precisione di una lama acuminata. Il confronto con l'altro capolavoro del genere, Il Buco di Jacques Becker, è illuminante. Se il film di Becker è un'epopea della solidarietà collettiva che si conclude con la tragedia del tradimento umano, quello di Bresson è il racconto di una lotta solitaria e spirituale. La riuscita dell'evasione di Fontaine non sembra dipendere solo dalla sua abilità, ma da un intervento quasi miracoloso, da una forma di grazia divina. Non è un caso che il titolo completo del film sia Un condannato a morte è fuggito, o Il vento soffia dove vuole. Quest'ultima parte è una citazione diretta dal Vangelo di Giovanni, che allude alla natura imperscrutabile dello Spirito Santo, e quindi della grazia. Fontaine riesce a fuggire non solo perché è tenace, ma perché il "vento" era dalla sua parte. La scelta di fidarsi di Jost non è una decisione strategica, ma un atto di fede. Alcune scene rimangono indelebili nella memoria, come l'uccisione della guardia dopo la discesa dal primo muro di cinta. Fontaine attende dietro ad un riparo il momento propizio per attaccare il soldato tedesco, al contempo ne condivide il respiro, il suono annoiato dei passi, il fumo di una sigaretta. Fuggitivo e Secondino si fondono l'uno nell'altro e Bresson indugia con l'inquadratura su questa sospensione temporale, come se ogni evento si cristallizzasse in quell'attimo. Poi Fontaine scatta e l'inquadratura rimane fissa sul muro dove se ne stava rintanato mentre fuori campo, con un suono secco e terribile, uccide il soldato di guardia. Solo un occhio sensibile e geniale come quello di Bresson poteva concepire una scena così bella e feroce, dove la violenza rimane in potenza, e non viene mai alla luce, ma dove due uomini, di opposte fazioni, sono per un breve istante avvinti nel silenzio della notte, entrambi vittime della stessa macchina di morte.

La grandezza di Bresson sta in questa sua estetica della sottrazione, un approccio quasi ascetico che lo avvicina più a un pittore come Piet Mondrian che a un regista convenzionale. Come Mondrian riduceva la pittura a linee rette e colori primari per raggiungere un'armonia universale, così Bresson spoglia il cinema di ogni orpello per arrivare a un'essenza spirituale. Il finale è di una semplicità disarmante. Fontaine e Jost camminano nella nebbia di una Lione quasi spettrale, finalmente liberi. Non c'è un climax trionfale, solo il suono dei loro passi e la voce fuori campo di Fontaine che pronuncia una frase di una normalità quasi scioccante: "Se mia madre mi vedesse...". Dopo un'ora e mezza di tensione metafisica, il film si chiude con il più umano e terreno dei pensieri. È in questa fusione tra il rigore trascendentale e la semplicità del dettaglio umano che risiede il miracolo di questo film, un'opera che è al contempo un thriller mozzafiato e una profonda meditazione sulla libertà, la fede e la grazia.

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