
A Touch of Zen - La fanciulla cavaliere errante
1970
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Regista
Una tela vuota può contenere l'universo. Un'ora di cinema quasi priva di azione può contenere più tensione di mille esplosioni. Il monumentale capolavoro di King Hu, "A Touch of Zen", opera su questo paradosso squisitamente buddista: l'importanza del vuoto, dello spazio negativo, del momento di quiete prima che la lama baleni. Per quasi sessanta minuti, il film si nega al suo stesso genere, il wuxia, preferendo abitare i territori del racconto gotico, quasi di un film di fantasmi alla Jacques Tourneur ambientato nella Cina della dinastia Ming. Seguiamo le peripezie di Gu Sheng-tsai, un erudito squattrinato, un calligrafo la cui massima ambizione è superare gli esami imperiali e la cui massima avventura è spiare i nuovi, misteriosi inquilini di un fatiscente forte abbandonato.
Gu è il nostro avatar intellettuale, un uomo di pennello e inchiostro gettato in un mondo di spade e sangue. È un voyeur, un teorico, uno stratega da poltrona che inizialmente osserva l'azione come noi spettatori, attraverso le fessure di un muro, interpretando suoni notturni e ombre fugaci. Il forte di Jinglu, con le sue architetture in rovina invase dalla vegetazione, non è solo una scenografia, ma un personaggio a sé stante, un labirinto di possibilità e minacce. In questo, King Hu dialoga inconsapevolmente con il Sergio Leone di "C'era una volta il West": entrambi usano il paesaggio e l'architettura come estensioni psicologiche dei loro personaggi e dilatano il tempo in attese snervanti che precedono la violenza. Ma dove Leone trova un nichilismo operistico, Hu scopre un trampolino di lancio verso il trascendente. La lunga, paziente costruzione del mondo e dei suoi pericoli non è un difetto di ritmo; è un atto di fede cinematografica, un invito a sintonizzarsi su una frequenza diversa, a percepire la tensione che si accumula nell'aria immobile come l'elettricità prima di un temporale.
Quando quel temporale finalmente si scatena, lo fa con una furia che ha ridefinito il linguaggio del cinema d'azione. La celeberrima sequenza nella foresta di bambù non è semplicemente una scena di combattimento; è una sinfonia cinetica, un balletto mortale che ha più in comune con la pittura astratta e la musica atonale che con qualsiasi zuffa realistica. King Hu frantuma lo spazio e il tempo con un montaggio percussivo, quasi cubista. I corpi dei guerrieri non si limitano a saltare: vengono scagliati, teletrasportati, trasformati in pure traiettorie di energia attraverso lo schermo. L'uso innovativo dei trampolini, che permette ai combattenti di librarsi tra i fusti di bambù come spiriti della foresta, crea un effetto di stupefacente leggerezza, trasformando la violenza in un'estasi visiva.
È impossibile non vedere in queste sequenze il seme di tutto ciò che sarebbe venuto dopo. Ang Lee, con "La tigre e il dragone", ha reso omaggio in modo esplicito a questa scena, ma l'influenza di Hu è più profonda e si estende fino alla Hollywood delle sorelle Wachowski, che con "Matrix" hanno applicato una logica simile di superamento delle leggi fisiche all'interno di un costrutto digitale. Hu, però, non aveva bisogno del digitale. Il suo miracolo è puramente cinematografico, un'alchimia di coreografia, montaggio e fotografia. Non ci mostra ogni parata e ogni fendente; ci mostra l'essenza del combattimento, la sua geometria spirituale. La macchina da presa non è un semplice registratore di eventi, ma un partecipante attivo che danza con i personaggi, svelando la bellezza astratta nascosta nel caos della battaglia.
Sotto questa superficie di magnificenza estetica, "A Touch of Zen" è un film profondamente filosofico. Il titolo stesso è una dichiarazione d'intenti. Non è "La pienezza dello Zen" o "La via dello Zen", ma un semplice "tocco". Un'illuminazione, un satori, che sfiora i personaggi e lo spettatore. Il conflitto centrale non è solo tra i fuggitivi guidati dalla nobile guerriera Yang Hui-zhen e gli sgherri del potente e corrotto eunuco Wei; è un conflitto epistemologico tra modi diversi di vedere il mondo. Gu, l'intellettuale, impara che la strategia e l'astuzia (la sua "arte della guerra" teorica) possono essere tanto letali quanto una spada affilata. La sua trappola nel forte, un capolavoro di inganno che trasforma le rovine infestate in una macchina della morte, rappresenta la fusione perfetta tra il pennello e la lama, tra il pensiero e l'azione.
Ma il film non si ferma qui. Nella sua terza e ultima parte, dopo che la vendetta terrena sembra compiuta, la narrazione ascende a un piano puramente metafisico. L'introduzione dei monaci buddisti, guidati dall'abate Hui-yuan, sposta l'asse del conflitto dalla sopravvivenza fisica all'illuminazione spirituale. La lotta non è più per la giustizia, ma per la trascendenza. Il potere dei monaci non è semplicemente una forma superiore di kung fu; è la manifestazione di una comprensione più profonda della realtà, dove la distinzione tra vita e morte, vittoria e sconfitta, diventa irrilevante. La celebre, enigmatica e visionaria immagine finale dell'abate che raggiunge una forma di nirvana, con il sole che gli trafigge il volto e il sangue dorato che cola da una ferita, è un'immagine-koan, una domanda aperta che risuona a lungo dopo la fine della visione. È un finale che disorientò il pubblico dell'epoca, abituato a risoluzioni più nette, ma che oggi appare come la logica e coraggiosa conclusione di un percorso che dal materiale conduce allo spirituale.
Girato nell'arco di tre anni, con una meticolosità ossessiva da parte di King Hu, il film fu un insuccesso commerciale al momento della sua uscita a Hong Kong e Taiwan. La sua struttura tripartita – racconto di fantasmi, film d'assedio, parabola buddista – era troppo esigente, la sua durata (quasi tre ore nella versione integrale) troppo imponente. Fu la giuria del Festival di Cannes del 1975, presieduta da Jeanne Moreau, a riconoscerne la grandezza, assegnandogli il Grand Prix tecnico e, di fatto, sdoganando il genere wuxia nel circuito del cinema d'autore internazionale. Improvvisamente, un genere considerato puro intrattenimento popolare veniva messo sullo stesso piano delle opere di Bergman, Fellini o Kurosawa. E il paragone con Kurosawa non è casuale: come il maestro giapponese, King Hu era un esteta rigoroso, uno storico meticoloso (la cura per i costumi e le scenografie è filologica) e un innovatore radicale del linguaggio cinematografico, capace di infondere in un racconto d'azione la profondità di una riflessione universale sulla natura del potere, della violenza e della spiritualità.
"A Touch of Zen" è più di un film; è un'esperienza immersiva, un trattato di estetica cinematografica mascherato da avventura cappa e spada. È un'opera che richiede pazienza ma che ripaga con visioni di una bellezza mozzafiato e con una complessità tematica che continua a rivelare nuovi strati a ogni visione. È la dimostrazione che il cinema di genere, nelle mani di un vero autore, può trascendere i propri confini e toccare le vette dell'arte, offrendoci non solo l'emozione di un combattimento, ma anche un fugace, prezioso "tocco" di illuminazione.
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