Viaggio nella Luna
1902
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Regista
Agli albori di un bislacco mezzo espressivo chiamato “cinematografo”, quando il pubblico si accontentava ancora delle "vedute animate" dei fratelli Lumière – semplici, seppur affascinanti, documentazioni della realtà quotidiana – il regista, illusionista e attore francese Georges Méliès irruppe sulla scena, esplorando con un’audacia inaudita le potenzialità di questa clamorosa novità tecnologica. La sua "Star Film" non ambiva a replicare il mondo, ma a ricrearlo, a plasmarlo secondo la logica del sogno e del fantastico, dando alla luce opere che, come Le Voyage dans la Lune, si rivelarono visionarie e sorprendentemente moderne nel concept, ancorando la neonata arte a un futuro fatto di narrazione e spettacolo.
L'universo di Viaggio nella Luna non si nutre solo delle audaci intuizioni di Jules Verne, sebbene l'influenza del suo Dalla Terra alla Luna sia palpabile nell'ingegnoso cannone lunare e nel concetto di un'esplorazione audace. Méliès attinge a piene mani da un bacino ben più vasto e stratificato della cultura popolare del suo tempo: non solo i romanzi di fantascienza proto-steampunk, ma anche le illustrazioni fantasiose, le tavole dei fumetti dell'epoca, le tradizioni burlesche del music-hall e, soprattutto, il ricco patrimonio delle fiabe e della magia da palcoscenico, sua prima e grande passione. Il film è, di fatto, intriso di riferimenti all'immaginario collettivo fin-de-siècle, un'epoca in bilico tra il positivismo scientifico e un persistente, quasi romantico, desiderio di meraviglia. Questo sincretismo culturale crea un ponte affascinante tra un passato animato dalla mitologia e dal folklore e un futuro che, sebbene ancora nebuloso, si preannunciava saturo di scoperte e nuove frontiere, sia tecnologiche che concettuali. Méliès, l'artigiano dei sogni, anticipa qui un tropo destinato a dominare l'estetica del fantastico per oltre un secolo.
L'eco dell'influenza di Méliès sul cinema successivo è, di fatto, innegabile e pervasiva. Non si tratta solo di tecniche o trucchi visivi, ma di un'intera filosofia del cinema come 'fabbrica di sogni'. Registi come Georges Lucas, la cui saga di Star Wars è permeata da un senso di avventura fiabesca e da una celebrazione del meraviglioso, e Terry Gilliam, maestro indiscusso del surrealismo visivo e delle scenografie eccentriche (pensiamo a Brazil o Le Avventure del Barone di Münchhausen), hanno apertamente riconosciuto il debito nei confronti del cineasta francese. Ma la sua ombra si allunga ben oltre: dall'uso audace del colore (Méliès faceva colorare a mano i suoi film, una pratica che precorreva l'estetica del Technicolor) alle prime incursioni nel genere della fantascienza e del fantasy, fino alla stessa idea che il cinema potesse essere un veicolo per l'evasione pura, per mondi che non esistono se non nella mente del creatore. Il suo approccio creativo, basato sull'illusione e sulla meraviglia, e il suo spirito pionieristico continuano a ispirare non solo nuovi cineasti desiderosi di esplorare i confini dell'immaginazione, ma anche intere generazioni di spettatori, che in ogni effetto speciale, in ogni viaggio cinematografico verso l'ignoto, ritrovano un'eco del primordiale stupore meliesiano.
Tratta da un racconto che attinge liberamente all'immaginario verniano, la narrazione si dipana con una logica da sogno, tipica della Belle Époque. La storia segue un eccentrico gruppo di astronomi, guidati dal Professor Barbenfouillis, che, in un impeto di ambizione scientifica e di pura follia visionaria, decide di raggiungere la Luna. Il loro mezzo di trasporto? Un proiettile a forma di capsula, sparato da un gigantesco cannone. L'immagine iconica, ormai scolpita nella memoria collettiva, dell'astronave che centra in pieno l'occhio della Luna antropomorfa, conferendole uno sguardo tra il sorpreso e il dolente, è uno dei momenti più geniali e riconoscibili dell'intera storia del cinema. Una volta raggiunto l'obiettivo, i nostri intrepidi viaggiatori verranno a conoscenza di un popolo ostile e bizzarro: i Seleniti, creature dalla forma insettoide che si dissolvono in fumo se colpite. Questi abitanti del satellite sono dominati da un re tiranno che, con un'eco delle paure imperialiste e coloniali dell'epoca, vuole imprigionare i terrestri e ridurli in schiavitù, salvo poi essere sopraffatto dalla furbizia e dalla superiorità tecnologica (un ombrello può essere un'arma micidiale!).
Ma al di là della sua semplice, eppure affascinante, narrazione, Le Voyage dans la Lune è un caleidoscopio di significati simbolici, un'allegoria in movimento. Il viaggio sulla Luna, metafora suprema della ricerca dell'ignoto, si carica di un'ambizione prometeica, la scoperta di nuovi mondi che non sono solo spazi geografici inesplorati, ma anche dimensioni interiori, limiti della conoscenza umana da superare. È l'epopea dell'uomo che osa sfidare il cielo, che si spinge oltre il conosciuto per abbracciare l'ineffabile, e in questo risiede la sua forza duratura. Il film cattura lo spirito di un'epoca, la fin de siècle, proiettandolo verso un futuro di infinite possibilità, dove scienza e fantasia si fondono in un'unica, inebriante ricerca. In tralice, in ogni fotogramma dipinto a mano e in ogni trucco di scena, traspare il talento ineguagliabile del regista nel rendere al meglio non solo le espressioni caricaturali dei volti degli attori (spesso gli stessi Méliès e la sua compagnia), ma anche i paesaggi alieni, fantasiosi e al contempo inquietanti, popolati da funghi giganti e creature stralunate. La dinamica del viaggio è resa attraverso un uso spregiudicato della cinepresa che, per la prima volta in modo così sistematico, non si limita a registrare, ma diventa strumento di trasformazione e di magia: dalle dissolvenze incrociate ai tagli rapidi, dagli effetti di prospettiva forzata ai stop-motion che fanno apparire e scomparire oggetti e personaggi in un batter d'occhio. È un bellissimo e indimenticabile incipit non solo per un film, ma per l'intera epopea del cinema come arte dello stupore, un viaggio che, grazie a questo pioniere inarrivabile, riversò una cornucopia di Meraviglie a tutti coloro che vi si imbarcarono, svelando un potenziale narrativo e visivo fino ad allora inimmaginabile.
A Georges Méliès, l'uomo che costruì il primo studio cinematografico con tetto di vetro a Montreuil – una vera e propria officina di sogni – dobbiamo, senza iperbole, veramente tutto. Fu un artigiano mosso da una curiosità implacabile e da un'insana, quasi maniacale, voglia di sperimentare, che lo portò a scoprire e a plasmare molte delle tecniche cinematografiche che ancora oggi costituiscono l'ossatura della grammatica filmica. Dalla "mascherina" (il matte shot primitivo che permetteva di unire più immagini in una sola, creando illusioni di mondi vastissimi o di creature fantastiche) allo "scatto singolo" (stop-motion o trick photography che animava oggetti inanimati o faceva scomparire personaggi in un lampo, ereditato dalla sua pratica di illusionista), fino al montaggio inteso non solo come concatenazione di scene, ma come strumento narrativo capace di alterare la percezione spaziale e temporale. Méliès, in un'epoca in cui la telecamera era spesso statica e il montaggio quasi inesistente, comprese intuitivamente la potenza del taglio per creare sorprese e illusioni, per guidare l'occhio dello spettatore attraverso un labirinto di meraviglie.
Méliès, con la sua mente di prestidigitatore e la sua sensibilità artistica, comprende fin da subito il potere evocativo e quasi ipnotico delle immagini in movimento. Ogni singola inquadratura, spesso ripresa da una prospettiva fissa che ricordava il palcoscenico teatrale ma con una profondità e una ricchezza inedite, è studiata nei minimi dettagli. Dalle scenografie elaborate, spesso dipinte con sfondi prospettici mozzafiato, ai costumi eccentrici e fantasiosi che trasformavano gli attori in creature di un altro mondo, tutto concorreva a creare un universo fantastico e, nel suo stesso bislacco modo, credibile. Non si trattava di riprodurre la realtà, ma di darle forma al sogno, rendendolo tangibile. Non a caso, la sequenza dell'astronave che si schianta nell'occhio della Luna è diventata un'icona del cinema mondiale, un'immagine che ha trascenduto il tempo e le culture, segnando l'immaginario di intere generazioni di spettatori e cineasti, un vero e proprio archetipo visivo della scoperta e dell'impatto del nuovo sull'antico.
In questo breve, scintillante filmato di soli quattordici minuti (nella sua versione originale e colorata), c'è condensata tutta la sua Arte, tutto il suo spontaneo e contagioso stupore nell'accostarsi a questo nuovo mondo della celluloide. Méliès, il grande affabulatore, l'erede di Scheherazade ma con una cinepresa al posto delle parole, ricava da esso mirabolanti storie da narrare al suo uditorio, non più solo parole o trucchi di scena, ma una sinfonia di immagini in movimento. Dimostra così, con la forza di un'evidenza irrefutabile, che il cinema è un linguaggio universale, capace di superare ogni barriera culturale e linguistica, di toccare le corde più profonde dell'immaginazione umana. Le immagini, proprio come le emozioni primordiali, hanno il potere intrinseco di comunicare idee e suggestioni in modo diretto e immediato, senza bisogno di traduzione. Le Voyage dans la Lune non è solo un film; è l'inizio di tutto, il big bang di celluloide che ha dato origine a un universo infinito di narrazioni, un portale verso l'illusione, la meraviglia e, soprattutto, l'infinita possibilità del sogno cinematografico. La sua luce continua a brillare, guida per chiunque osi guardare le stelle.
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