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Accattone

1961

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Il primo film di Pasolini segna l’ingresso nella Settima Arte di un uomo dotato di una sensibilità e di un intuito iconografico davvero unici. Non si trattava di un mero esercizio stilistico o di un’appendice alle sue già celebri opere letterarie, bensì di una vera e propria epifania cinematografica, la materializzazione di una visione del mondo radicale e profonda. La sua esperienza pregressa come poeta, romanziere e saggista non solo lo aveva fornito di una penna affilata e di una perspicacia analitica, ma anche di una capacità quasi lirica di cogliere l'essenza delle cose, traducendola in immagini di perturbante bellezza e crudeltà. Il suo occhio, già allenato a sezionare la società e a restituirne le pieghe più recondite nella prosa, qui si fa lente implacabile, capace di scarnificare la realtà e di rivelarne l'anima.

Un poeta dietro la cinepresa che guarda la realtà con sguardo sociologico, che ama raccontare le storie di un proletariato brulicante di personaggi spontanei e voraci di vita come Accattone. Non è semplice cronaca, ma un’indagine antropologica sul sottoproletariato romano delle borgate, un universo ai margini che Pasolini aveva già esplorato nelle sue opere narrative come “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”. Questi personaggi, lungi dall'essere figure marginali, sono per Pasolini gli ultimi depositari di un'autenticità primigenia, di una vitalità anarchica e di una sacralità laica che la società borghese e il nascente consumismo stavano inesorabilmente cancellando. Il loro dialetto, i loro riti, la loro esistenza precariamente sospesa tra furto e ingenua sopravvivenza, sono osservati con una pietà distaccata, quasi fenomenologica, ma sempre intrisa di un amore viscerale per la loro disperata purezza.

Accattone è una sorta di parassita che vive di piccoli furti, con una compagna che induce a prostituirsi per lui. Il suo è un peregrinare esistenziale, un darsi alla giornata senza pretese né orizzonti, eppure carico di una sua particolare dignità. Quando sarà arrestata si getterà su una seconda donna di cui s’innamorerà, dando vita a un rapporto più complesso e meno strumentale, forse l'unico barlume di una ricerca affettiva autentica in un'esistenza altrimenti votata al mero istinto.

Su tutto l’aura possente di questo personaggio appartenente a una dimensione ctonia, materiale, esperibile, con un’etica certamente distorta ma sempre preferibile alla retorica ipocrita della classe medio-borghese della Roma bene. La sua moralità, se di moralità si può parlare, non è figlia di precetti sociali ma di una legge interna, archetipica, scolpita nella sopravvivenza e nella prevaricazione, ma priva della falsa coscienza che ammanta la civiltà "rispettabile". Accattone, con la sua inafferrabile e contraddittoria personalità, diventa così emblema di un mondo in via di estinzione, quello delle culture pre-industriali e pre-borghesi, che Pasolini vedeva come un serbatoio di valori autentici, contrapposto alla degradazione morale e culturale portata dal "miracolo economico" italiano.

Un’opera che raccoglie la lezione del neorealismo e mette in scena la vita nei borghi più remoti e luridi così com’è, senza finzione, senza alcun tipo di filtro. Ma la trasforma, la eleva, grazie a scelte stilistiche audaci e a un'estetica che trascende la mera documentazione. Pasolini più di ogni altro riuscì a rappresentare la realtà nella sua crudezza, ma lo fece infondendole una dimensione quasi sacra, a tratti epica. L'uso sublime delle musiche di Johann Sebastian Bach, dissonante eppure straordinariamente efficace nel contrasto con l'abbrutimento delle periferie, conferisce alle immagini una solennità inattesa, un respiro metafisico che eleva la miseria a tragedia classica. Questa giustapposizione ardita – la sporcizia delle borgate romana commentata dalle fughe barocche – non è una mera provocazione, bensì una profonda dichiarazione d’intenti: Pasolini non si limitava a mostrare il mondo, ma intendeva rivelarne la sua intrinseca, perduta, religiosità, la sua bellezza in dissoluzione.

Certa critica contemporanea criticò aspramente la noncuranza con cui nel film si affrontavano temi religiosi trattati più o meno velatamente da Pasolini come mero contorno, come intercalare dialettico alla sua narrazione: a nostro parere è del tutto fuori luogo parlarne (Accattone non è certamente questo, ne è rilevante la religione in questo film) e anzi, chi lo fece dimostrò in qualche modo di travisare completamente il retaggio semantico dell’opera. Non si trattava affatto di un contorno, ma di un elemento strutturale, sebbene non nella sua accezione ortodossa. La religiosità in Pasolini è un'inquietudine ontologica, una ricerca del sacro nel profano, un'ossessiva fascinazione per l'archetipo e il mito. Il "Cristo" di Pasolini non è quello delle sacrestie, ma un Cristo umanissimo e terreno, che può trovare incarnazione in un sottoproletario sofferente. La morte di Accattone, non a caso, è stata letta da molti come una crocifissione laica, un sacrificio incompreso che sigilla il destino di un mondo puro e condannato. Dunque, la religiosità non è un dato accessorio, ma il substrato su cui si innesta la sua visione più disperata e lucida: la constatazione che la forza vitale, la purezza pagana e la sacralità dell'uomo primitivo stavano morendo, travolte dall'omologazione e dalla razionalizzazione borghese. Il film è, in ultima analisi, un lamento per questa perdita, un’elegia amara per quella "lucciola" che, come avrebbe poi scritto Pasolini, si stava spegnendo.

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