Acque del Sud
1945
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Regista
La leggenda, come spesso accade, è più succosa e semanticamente più densa della realtà. Si narra di una scommessa tra giganti, su una barca da pesca al largo della Florida. Da una parte Howard Hawks, il professionista consumato, l'architetto del cinema americano classico, convinto di poter trarre un gran film da qualsiasi materiale. Dall'altra Ernest Hemingway, il titano della letteratura, che lo sfida a cavar sangue da una rapa, a trasformare in oro cinematografico il suo romanzo peggiore, "il suo più grosso mucchio di spazzatura": To Have and Have Not. Che la storia sia vera o apocrifa poco importa. Ciò che conta è il risultato: Acque del Sud, un film che non è un'adattamento, ma una trasfigurazione alchemica, un'opera che usa il romanzo di Hemingway come un trampolino di lancio per saltare in un universo completamente altro, un universo plasmato da Hawks, Bogart e da un fulmine a ciel sereno di nome Lauren Bacall.
È impossibile, e intellettualmente disonesto, non iniziare parlando del fantasma che aleggia su ogni fotogramma: Casablanca. Prodotto dalla Warner Bros. per capitalizzare sull'onda lunga del successo del film di Michael Curtiz, Acque del Sud ne riprende la formula quasi punto per punto: l'espatriato americano cinico e disilluso (Humphrey Bogart, ovviamente), un'ambientazione esotica controllata dalla Francia di Vichy (la Martinica al posto del Marocco), un pianista che funge da coscienza e coro greco (il meraviglioso Hoagy Carmichael al posto di Dooley Wilson), un coinvolgimento riluttante nella causa della Resistenza francese. Eppure, ridurre il film a un mero "Casablanca 2.0" sarebbe un errore critico madornale. Se Casablanca è un'opera lirica, un melodramma intriso di romanticismo epico e sacrificio per una Causa superiore, Acque del Sud è un pezzo jazz, sincopato, intimo, quasi claustrofobico. L'idealismo di Rick Blaine, pur mascherato dal cinismo, è una fiamma che arde sotto la cenere; l'individualismo di Harry Morgan è un blocco di granito, scalfito non da grandi ideali, ma da un codice d'onore personale e, soprattutto, dall'incontro con una donna che è il suo specchio. La politica qui è rumore di fondo, un fastidio che interferisce con gli affari, un pretesto per l'azione, non il motore del dramma. La vera posta in gioco non è il futuro del mondo libero, ma la creazione di una sgangherata famiglia surrogata, un microcosmo di lealtà forgiato contro un mondo ostile: Harry, la sua nuova fiamma "Slim", il suo amico alcolizzato Eddie (un Walter Brennan di una fragilità commovente) e il proprietario del bar, Frenchy.
Il film è una masterclass di economia narrativa hawksiana. Hawks, con la complicità di una coppia di sceneggiatori che definire improbabile è un eufemismo – il futuro premio Nobel William Faulkner e la veterana del noir Jules Furthman – distilla l'essenza di una situazione, la riduce all'osso. Non c'è un grammo di grasso, ogni scena è funzionale, ogni dialogo è una stoccata a doppio taglio. L'apporto di Faulkner è percepibile non in una prosa letteraria, ma al suo esatto opposto: nella precisione chirurgica delle battute, nella loro capacità di rivelare il personaggio attraverso il non detto, in un laconismo che odora di polvere da sparo e whisky. Il risultato è un copione che suona come musica, un duetto di sguardi e sottintesi che esplode nella chimica tra Bogart e Bacall, forse la più potente e genuina mai catturata su pellicola.
E qui bisogna fermarsi. Perché Acque del Sud è, prima di ogni altra cosa, il documento mitopoietico della nascita di una stella e di un amore. Lauren Bacall, diciannovenne all'esordio, non entra in scena: la conquista. La sua introduzione è leggenda: "Anyone got a match?". La voce roca, lo sguardo a metà tra la supplica e la sfida, una postura che è un trattato di insofferenza e sicurezza. Non è la classica femme fatale del noir, una creatura notturna che porta alla rovina. Né è la damigella da salvare. Slim, come viene soprannominata da Harry, è l'archetipo della donna hawksiana: indipendente, sfrontata, ironica, sessualmente consapevole e assolutamente alla pari con la sua controparte maschile. Non è un oggetto del desiderio, ma un soggetto desiderante. Il loro corteggiamento è una partita a scacchi verbale, una serie di test reciproci per saggiare la tempra dell'altro. La celeberrima scena del "You know how to whistle, don't you? You just put your lips together and... blow" non è solo una delle battute più iconiche della storia del cinema; è la dichiarazione di un nuovo paradigma romantico. È lei a dettare le regole, a offrirsi e a sfidarlo, invertendo i ruoli di genere con una naturalezza che ancora oggi lascia sbalorditi. Vediamo Bogart, l'attore che incarnava la durezza impenetrabile, sciogliersi letteralmente davanti a lei, il suo sorriso incerto e sorpreso è quello dell'uomo, non solo del personaggio, che si sta innamorando davanti ai nostri occhi. Questa dimensione meta-testuale, la fusione totale tra finzione e realtà, conferisce al film un'aura magica e irripetibile.
La regia di Hawks è, come sempre, di una trasparenza sublime. Il suo stile è l'antitesi dell'esibizionismo. La macchina da presa è sempre al posto giusto, al servizio degli attori e del ritmo. Hawks costruisce la tensione non con movimenti di macchina virtuosistici, ma con la gestione dello spazio e la dinamica dei corpi. La maggior parte del film si svolge in interni soffocanti – la hall dell'albergo, la stanza di Harry, il ponte della sua barca – creando un senso di pressione costante, un mondo in cui non c'è via di fuga, né dalla polizia di Vichy né, soprattutto, dal campo di forza emotivo generato dai due protagonisti. Hawks è un maestro nel filmare i gruppi, le dinamiche professionali, e qui applica lo stesso principio alla nascente relazione tra Harry e Slim: sono due professionisti della sopravvivenza che riconoscono l'uno nell'altra la stessa competenza e lo stesso disincanto.
Inserito nel suo contesto storico, Acque del Sud (1944) è un film di guerra anomalo. A differenza della propaganda più diretta dell'epoca, la sua visione del conflitto è meno manichea. Il nemico non è l'impersonificazione del Male assoluto, come i nazisti di Casablanca, ma la burocrazia corrotta e violenta della Francia collaborazionista, rappresentata da poliziotti sadici ma, in fondo, mediocri. La scelta di Harry Morgan di rimanere neutrale ("I'm minding my own business") non è presentata come una colpa da espiare, ma come una posizione pragmatica e comprensibile in un mondo che ha perso la bussola morale. Il suo eventuale intervento non è dettato da una conversione ideologica, ma dalla violazione del suo codice personale e dalla necessità di proteggere le persone a cui, suo malgrado, ha iniziato a tenere. È una visione del mondo più piccola, più cinica, ma forse più onesta, che anticipa le atmosfere disilluse del noir post-bellico.
Rivederlo oggi significa assistere a un miracolo. Un film nato da una scommessa, concepito come un'operazione commerciale, si è trasformato in un archetipo. Ha cristallizzato la versione definitiva del divo Bogart – non più il gangster tormentato degli anni '30 o il romantico dolente di Casablanca, ma l'eroe esistenzialista, solitario e integro, che avrebbe dominato il decennio successivo. Ha creato dal nulla il mito di Lauren Bacall. E ha dimostrato che il cinema, nelle mani di un artigiano geniale come Hawks, può prendere i materiali più disparati – un romanzo fallito, un successo da replicare, l'amore che sboccia su un set – e fonderli in qualcosa di unico, eterno e ineffabilmente cool. Un distillato purissimo di carisma, intelligenza e stile che non ha perso una goccia della sua potenza.
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