Aguirre, furore di Dio
1972
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Regista
Werner Herzog alla sua prova più matura. Non semplicemente un film, ma un’esperienza liminare, un viaggio allucinatorio nel cuore di tenebra dell’ambizione umana, forgiato nella forgia incandescente della cosiddetta “verità estatica” herzogiana. Questa non è la verità del giornalismo o della ricostruzione storica pedissequa, ma una verità più profonda, quella che emerge quando la realtà fattuale si dissolve per rivelare l’essenza archetipica, il subconscio collettivo.
Klaus Kinski interpreta un soldato spagnolo alla ricerca di El Dorado, la mitica città d’oro dispersa in Sud America. Non è solo un ruolo, è un’incarnazione. Kinski non si limita a recitare: egli diventa Aguirre, il traditore, l'usurpatore, il conquistador impazzito che incarna la megalomania coloniale al suo culmine più parossistico. Il suo sguardo, una fessura di follia gelida eppure ardente, è il fulcro attorno a cui ruota l'intera spirale discendente della spedizione. È una performance titanica, quasi biblica nella sua intensità demoniaca, che cristallizza la complessa e spesso tempestosa collaborazione tra regista e attore, una sinergia produttiva tanto leggendaria quanto disfunzionale, capace di generare arte pura dall’attrito di due volontà irriducibili.
La spedizione procede nonostante le titaniche difficoltà che incontra, una foresta che sembra incombere ad ogni passo con nuove minacce e le tribù di Indios che vi vivono decisi a non far avanzare la comitiva. Ma queste difficoltà non sono esterne; sono il riflesso, e al contempo l'amplificatore, della disintegrazione interiore. Il Rio delle Amazzoni, con la sua corrente implacabile e i suoi meandri senza fine, non è solo uno sfondo esotico, ma un personaggio a sé stante, una divinità fluviale che assiste impassibile all'autodistruzione. Ogni passo in avanti è un passo più profondo nell'abisso della paranoia e della delirante grandezza, in una discesa che evoca gli echi più oscuri della letteratura di viaggio e scoperta, da Joseph Conrad con il suo Kurtz in "Cuore di Tenebra" a Francis Ford Coppola, che in "Apocalypse Now" avrebbe traslato un simile delirio dalla giungla africana a quella vietnamita, dimostrando l'universalità di questa follia primordiale.
Aguirre nella sua ostinata follia di raggiungere la sua meta fa uccidere chi gli si mette contro sprofondando passo dopo passo in una pazzia senza ritorno. La sua non è una semplice sete d'oro, ma una brama di potere assoluto, un desiderio di riscrivere le leggi della natura e della società. Si proclama "Furore di Dio", un epiteto che non solo rivela la sua megalomania, ma che si rivela anche ironicamente tragico, poiché è proprio la furia della natura e l'indifferenza del divino (o dell'assenza di esso) a sigillare il suo destino. È la quintessenza del personaggio prometeico, ma privo di qualsiasi nobile intento, animato solo da un ego ipertrofico e da una visione distorta della propria predestinazione.
Un film imperniato sulla grande interpretazione dell’attore protagonista e sulla splendida regia di Herzog. Questa regia non è mai intrusiva, ma si fa quasi invisibile, un occhio distaccato che osserva la débâcle con una lucidità quasi documentaristica, pur intrisa di una palpabile qualità onirica. Le lunghe riprese, l'uso minimalista del dialogo e la capacità di estrarre il massimo impatto emotivo da situazioni estreme – gran parte delle quali reali, date le condizioni di produzione estenuanti e i rischi effettivi corsi dalla troupe – contribuiscono a un'immersione totale dello spettatore. Herzog non si limita a mostrare la giungla; ce la fa sentire, con la sua umidità soffocante, i suoi suoni alieni, la sua fauna indifferente all'agonia umana.
Sullo sfondo la natura lussureggiante dell’Amazzonia peruviana, catturata da una cinematografia che, pur utilizzando mezzi essenziali, raggiunge vette di bellezza spettrale. Non è una natura edenica, bensì selvaggia, implacabile, indifferente.
L’elemento della Natura è cardinale nell’impianto narrativo e nel tessuto ideologico che sottende ad esso: il confronto con una Natura ora atroce competitrice, ora fedele compagna distingue sempre le azioni del protagonista sublimandole in una tensione costante, soffusa, vibrante. Questa natura non è un nemico che combatte attivamente; è una forza primordiale, antica, che semplicemente è, e nel suo essere silenzioso e persistente finisce per annientare la fragile costruzione della civiltà umana. È la grande divoratrice, che riassorbe i tentativi di conquista con la stessa tranquillità con cui inghiotte i resti della spedizione, i corpi dei morti, gli scafi alla deriva. La Natura in "Aguirre" è il giudice ultimo, e il suo verdetto è l'oblio, una sferzante condanna alla presunzione antropocentrica.
Un’opera che canta l’eterna tensione tra uomo e ambiente, tra l’ambizione umana e la furia degli elementi, in bilico tra antropocentrismo e tirannia della Natura. Un film che non offre risposte facili, ma pone interrogativi scomodi sulla psiche umana, sull'impulso di conquista e sulla nostra irrimediabile piccolezza di fronte all'immensità di un mondo che non ci appartiene. È un'elegia per un'epoca perduta, e al contempo un monito agghiacciante per ogni epoca, risuonando con una potenza che trascende la sua cornice storica per farsi parabola universale sulla caduta, la hybris e l'inarrestabile marcia verso la follia.
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