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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Albergo Nord

1938

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Un albergo non è un luogo, ma una condizione temporanea dell'anima, un palcoscenico dove le esistenze entrano ed escono senza lasciare traccia, se non una macchia sul tappeto o un'eco di parole disperate. L'Hôtel du Nord di Marcel Carné è questo e molto altro: un microcosmo brulicante di umanità ferita, un'architettura dell'anima intrappolata sulle rive di un canale che non scorre da nessuna parte. Anzi, che non esiste nemmeno. La prima, fondamentale chiave per decifrare questo capolavoro del Realismo Poetico francese sta proprio qui, in questo paradosso fondativo: il celebre Canal Saint-Martin che fa da sfondo alle vicende non è altro che una monumentale, struggente ricostruzione in studio, opera del genio scenografico di Alexandre Trauner. L'acqua è immobile, il cielo è dipinto, le luci sono un artificio. Carné non cerca il vero, ma il verosimile; non la cronaca, ma il sentimento. Il suo "realismo" è una costruzione estetica tanto deliberata quanto un dipinto di De Chirico, un universo sigillato in cui il destino non è una forza cosmica, ma una conseguenza della scenografia.

Siamo nel 1938. L'Europa trattiene il respiro sull'orlo dell'abisso. L'esperienza del Fronte Popolare in Francia si è appena dissolta in un'amara disillusione e l'aria è densa di un fatalismo che il cinema di Carné, e del suo quasi-fratello di poetica Julien Duvivier, assorbe e trasfigura in un'elegia crepuscolare per la classe operaia. In questo clima, una giovane coppia di amanti, Pierre (Jean-Pierre Aumont) e Renée (Annabella), prende una stanza all'Hôtel du Nord per compiere un gesto tanto romantico quanto disperato: un patto suicida per sfuggire a una vita che non offre loro alcun futuro. Il loro è l'amore assoluto e ingenuo dei romanzi d'appendice, un sentimento puro che il mondo reale, grigio e spietato, non può che corrompere. Ma il destino, o forse solo un proiettile impreciso, ci mette lo zampino. Lui le spara, ma non trova il coraggio di uccidersi. Renée sopravvive, Pierre finisce in prigione. Il dramma che doveva essere il finale di una tragedia si trasforma nell'innesco di un'altra narrazione, più complessa e infinitamente più interessante.

L'albergo, questo organismo vivente che respira attraverso le sue porte girevoli e le sue stanze modeste, si richiude su Renée, assorbendola nel suo tessuto umano. È qui che il film opera uno scarto geniale, spostando il baricentro dalla coppia idealista a quella cinica, speculare e antitetica, formata da Monsieur Edmond (un monumentale Louis Jouvet) e Raymonde (un'inarrivabile Arletty). Lui, protettore dal passato oscuro e dalla morale elastica, è un filosofo del marciapiede, un Mefistofele stanco che osserva il mondo con la rassegnazione di chi ha già visto ogni finale possibile. Lei, prostituta dalla battuta fulminante e dal cuore pragmatico, è l'incarnazione dello spirito parigino, una forza della natura che oppone il suo disincanto vitale alla malinconia ambientale. Se Pierre e Renée sono la "poesia" del titolo, Edmond e Raymonde sono il "realismo".

Il loro confronto dialettico è il cuore pulsante del film. Edmond, vedendo in Renée una purezza che credeva perduta, tenta di plasmarla, di salvarla da quel mondo che lui stesso contribuisce a inquinare. Jouvet recita con una sottrazione magistrale, le sue pause, i suoi sguardi laconici e le sue frasi cesellate (il film è scritto da Henri Jeanson e Jean Aurenche) lo trasformano in una sorta di sacerdote laico del fatalismo. È un personaggio che sembra uscito da un romanzo di Dostoevskij e catapultato sui quais della Senna, un uomo che ha compreso l'assurdità del libero arbitrio in un mondo predeterminato. La sua attrazione per Renée non è tanto carnale quanto demiurgica: vuole riscrivere la sua storia, offrirle quell'epilogo felice che a lui è stato negato. Ma il suo tentativo è destinato a fallire, perché nell'universo di Carné non c'è salvezza individuale, ma solo una condivisione corale della condanna.

E poi c'è Arletty. Il suo personaggio, Raymonde, è l'autore di un cortocircuito meta-cinematografico che è entrato nella storia. Quando Edmond, infastidito, le intima di andarsene per cambiare "atmosphère", lei gli scaglia contro una delle battute più celebri e sovversive del cinema francese: "Atmosphère ! Atmosphère ! Est-ce que j'ai une gueule d'atmosphère ?" ("Atmosfera! Atmosfera! Ho forse una faccia da atmosfera?"). In quel momento, Arletty non sta solo rispondendo al suo interlocutore. Sta parlando direttamente a Marcel Carné, al direttore della fotografia Armand Thirard, al pubblico. Sta squarciando il velo della finzione, rifiutando di essere ridotta a un mero elemento decorativo di quel "realismo poetico" così meticolosamente costruito. È un atto di ribellione punk ante litteram, la rivendicazione orgogliosa della propria concretezza, del proprio corpo e della propria "gueule" (faccia, muso) contro l'estetizzazione della miseria. È il "realismo" che si ribella alla "poesia".

Questo dialogo tra artificio e realtà è l'assioma su cui poggia l'intero film. La vita nell'albergo, con i suoi piccoli drammi (la prima comunione, i litigi coniugali, i pasti in comune), sembra un palinsesto di storie alla Georges Simenon, un affresco di un'umanità tenace che resiste nonostante tutto. Carné filma questi momenti con un calore e un'empatia che contrastano con la disperazione di fondo, creando una tensione costante tra la comunità come rifugio e la comunità come prigione. L'Hôtel du Nord è una versione laica del Purgatorio dantesco, un luogo di attesa dove le anime non espiano peccati, ma semplicemente attendono un destino che è già stato scritto per loro fuori campo, nelle stanze del potere, nei ministeri dove si decideva la pace o la guerra.

Il finale è di una struggente ambiguità. Pierre viene rilasciato, Renée lo perdona e la coppia si riunisce. Si allontanano insieme, lungo le rive del canale artificiale, scomparendo nella nebbia dello studio. Hanno avuto la loro seconda possibilità, ma lo spettatore del 1938, e ancora di più quello odierno, non può fare a meno di chiedersi: verso cosa stanno andando? La loro fuga non è una liberazione, ma un ritorno nel mondo reale che, a un anno dall'inizio del più grande massacro della storia moderna, si preannunciava ben più terribile della prigione dorata dell'Hôtel du Nord. La loro storia d'amore, che il film sembrava aver messo da parte, ritorna per chiudere il cerchio, ma il suo sapore è cambiato. Non è più la fiaba romantica dell'inizio, ma una scelta consapevole di affrontare insieme un futuro incerto, forse inesistente.

"Hôtel du Nord" è un film che funziona come una capsula del tempo. Contiene non solo l'estetica di un'epoca cinematografica irripetibile, ma anche l'inconscio collettivo di una nazione in bilico. È un'opera che dialoga con la grande tradizione del romanzo realista francese del XIX secolo, da Balzac a Zola, aggiornandola con la sensibilità disillusa del XX secolo. È un film sulla fragilità dei sogni e sulla tenacia della vita, un'opera in cui la forma (lo studio, l'illuminazione, la recitazione stilizzata) non è un semplice contenitore, ma la sostanza stessa del messaggio. Un capolavoro che ci ricorda come, a volte, la più profonda verità non si trovi nella realtà, ma nella sua magnifica, disperata e poetica contraffazione.

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