Aliens - Scontro finale
1986
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Regista
L’eresia più riuscita nella storia del cinema porta una “s” alla fine di una parola. Quella singola lettera, aggiunta come un sibilo minaccioso al titolo del capolavoro gotico-spaziale di Ridley Scott, è una dichiarazione di intenti, un manifesto programmatico che annuncia una trasmutazione radicale. Se Alien era un concerto da camera per flauto solo e terrore cosmico, una sinfonia del vuoto e del non visto orchestrata come un dramma da camera in una cattedrale industriale alla deriva, Aliens - Scontro finale di James Cameron è un’opera heavy metal, un Boléro al napalm, una valchiria di proiettili traccianti e titanio urlante. È il seguito che non avrebbe dovuto funzionare, che sulla carta suonava come un sacrilegio, e che invece si è imposto come uno dei rari casi in cui il discepolo, pur non superando il maestro, fonda una propria, altrettanto valida, scuola di pensiero.
Il genio di Cameron non risiede nell'emulazione, ma nella deviazione consapevole. Egli comprende che replicare la suspense claustrofobica e l'orrore lovecraftiano di Scott sarebbe stato un esercizio sterile, un apocrifo destinato a sbiadire al confronto con l'originale. Così, compie un’operazione di alchimia narrativa: prende l'oro puro dell'horror esistenziale e lo trasmuta in un altro metallo prezioso, quello del film di guerra. Aliens non è un film su una casa infestata nello spazio; è la guerra del Vietnam combattuta sul pianeta LV-426. I Colonial Marines, con il loro cameratismo spaccone, la loro gerarchia disfunzionale e la loro tracotante fiducia in una tecnologia superiore ("un'arma molecolare a impulsi da dieci millimetri con lanciagranate da trenta millimetri"), sono i figli diretti dei soldati visti in Apocalypse Now o Platoon. Arrivano come una forza di liberazione high-tech, convinti di poter "nuclearizzare il sito dall'orbita" come unica soluzione, per poi trovarsi impantanati in un conflitto asimmetrico contro un nemico indigeno, incomprensibile, che sbuca dalle pareti e trasforma il loro arsenale in un inutile ammasso di ferraglia. La discesa del dropship, coreografata con una precisione quasi documentaristica, è l'equivalente fantascientifico di un elicottero Huey che penetra nella giungla vietnamita, e il crollo psicologico del soldato Hudson, il cui cinismo si dissolve in un pianto di terrore puro ("Game over, man! Game over!"), è il lamento di un'intera generazione di soldati la cui superiorità bellica si è infranta contro una realtà che non potevano comprendere né sconfiggere.
In questo scenario, Ellen Ripley non è più la "final girl" del canone slasher, la sopravvissuta per caso. Cameron la eleva a una figura quasi mitologica. La troviamo all'inizio del film come una Cassandra post-traumatica, una profetessa inascoltata cui la Weyland-Yutani Corporation, incarnazione del cinismo capitalista reaganiano, revoca la licenza di volo, negando la sua verità. È una donna spezzata, perseguitata da incubi che non sono solo memorie ma presagi. Il suo ritorno su LV-426 non è una scelta, ma una catabasi, una discesa agli inferi necessaria per esorcizzare i propri demoni. E in questo inferno biologico, Ripley subisce una metamorfosi straordinaria. Trovando la piccola Newt, l'unica sopravvissuta della colonia, il suo istinto di sopravvivenza si trasfigura in un feroce istinto materno. Non combatte più solo per sé stessa, ma per il futuro incarnato da quella bambina. La scena in cui, con gesti precisi e quasi rituali, assembla la sua arma definitiva – un fucile a impulsi e un lanciafiamme legati insieme con il nastro adesivo – è l'apoteosi di questa trasformazione: la civile diventa guerriera, la vittima diventa cacciatrice.
Questa tematica materna è la vera spina dorsale filosofica del film e trova il suo culmine speculare e mostruoso nella rivelazione della Regina Aliena. Se lo xenomorfo di Giger era un incubo freudiano, un parassita fallico e un agente di violazione corporea, la creatura concepita da Cameron e realizzata dal genio di Stan Winston è un archetipo diverso: è la Matriarca terrificante, la madre primordiale e divoratrice. Il suo nido non è solo un covo, ma un utero industriale, una cattedrale biomeccanica dove la vita viene prodotta in serie attraverso orribili ovopositori. Lo scontro finale tra Ripley, corazzata nel suo esoscheletro meccanico del Power Loader, e la Regina non è semplicemente un duello tra un'eroina e un mostro. È una guerra tra due madri, una lotta darwiniana tra due concezioni opposte della maternità: quella protettiva e sacrificale di Ripley contro quella predatoria e totalitaria della Regina. Il grido "Get away from her, you bitch!" ("Stai lontana da lei, maledetta!") non è una semplice battuta a effetto; è il ruggito primordiale di una specie che difende la propria prole, un momento di pura epica che trascende il genere.
Cameron, a differenza di Scott, non è un pittore di atmosfere, ma un ingegnere, un demiurgo meccanico. La sua ossessione per il dettaglio funzionale, per la verosimiglianza della tecnologia, conferisce al mondo di Aliens una tangibilità quasi insuperabile. La Sulaco non è un'astronave, è una corazzata orbitante. L'APC non è un veicolo di scena, è un carro armato claustrofobico. Ogni pezzo di equipaggiamento, ogni display, ogni rumore metallico contribuisce a creare un universo "usato", un futuro che non è scintillante ma sporco, oliato e funzionale, un'estetica che Syd Mead e Ron Cobb avevano già contribuito a definire ma che qui raggiunge la sua massima espressione pragmatica. Cameron dirige l'azione con la precisione di un orologiaio svizzero e la furia di un condottiero. La sequenza dell'imboscata nel centro di controllo atmosferico è una lezione di montaggio, ritmo e geografia dello spazio che ancora oggi viene studiata nelle scuole di cinema. L'escalation è implacabile, un crescendo che parte da un silenzio carico di tensione (i sensori di movimento che impazziscono) per esplodere in una cacofonia di fuoco e morte, senza mai concedere un attimo di tregua.
Inserito nel suo contesto, Aliens è un perfetto distillato dello zeitgeist degli anni '80. C'è l'interventismo militare, la retorica del "calcio in culo", ma anche una profonda sfiducia verso le istituzioni. La vera minaccia, ancora più subdola e disgustosa degli xenomorfi, è Carter Burke, il rappresentante della Compagnia. Lui non è un mostro guidato dall'istinto, ma un essere umano che sceglie la mostruosità in nome del profitto, disposto a sacrificare i suoi compagni per un "considerevole guadagno percentuale". Burke è l'incarnazione dello yuppie senza scrupoli, la metastasi di un sistema che antepone il valore economico alla vita umana. In questo, il film si rivela più sovversivo di quanto la sua superficie da blockbuster muscolare lasci intendere.
Alla fine, la grandezza di Aliens risiede nel suo essere una perfetta anomalia. È un film d'azione con il cuore di un dramma psicologico, un war movie con l'anima di un monster movie, un blockbuster con la complessità tematica di un'opera d'autore. Ha ridefinito non solo il concetto di sequel, ma anche il ruolo della protagonista femminile nel cinema d'azione, trasformando Ellen Ripley da icona horror a leggenda della fantascienza, una figura omerica la cui odissea è impressa a fuoco nell'immaginario collettivo. Un'eresia, sì, ma di quelle che fondano nuove religioni.
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