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Poster for All That Jazz - Lo spettacolo comincia

All That Jazz - Lo spettacolo comincia

1979

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Regista

Un cuore che batte a tempo di Vivaldi, un bisturi che incide la carne con la precisione di un passo di danza, una sigaretta che brucia tra le dita come l'ultimo atto di una tragedia annunciata. Il cinema di Bob Fosse, e in particolare il suo capolavoro terminale e testamentario, "All That Jazz", non si limita a raccontare una storia; esegue una disamina autoptica in tempo reale, un'elegiaca coreografia della propria fine. È un'opera che pulsa di una vita così disperata da abbracciare la morte come l'ultimo, inevitabile numero di varietà. Per comprendere appieno la magnitudo di questa sinfonia del collasso, bisogna abbandonare l'idea di un musical tradizionale e accogliere quella di un delirio febbrile, un montaggio sincopato dell'anima di un artista che si sta cannibalizzando in nome dello spettacolo.

Joe Gideon, interpretato da un Roy Scheider mai così febbrile e carismatico, non è un alter ego di Fosse: è Fosse stesso, spogliato di ogni finzione, messo a nudo sul tavolo operatorio della settima arte. La genesi del film è leggenda: nel 1975, mentre montava di giorno il suo biopic su Lenny Bruce e provava di notte il musical "Chicago" a Broadway, Fosse subì un gravissimo attacco cardiaco. "All That Jazz" è la cronaca, trasfigurata e spettacolarizzata, di quell'evento. È il tentativo, titanico e folle, di dirigere la propria morte, di montare le scene della propria agonia, di scegliere la colonna sonora per l'ultimo respiro. Se Federico Fellini in "8½" aveva messo in scena la crisi dell'artista paralizzato dall'inazione, Fosse orchestra la crisi dell'artista consumato dall'azione, un uomo che non può smettere di creare, di sedurre, di distruggersi, perché fermarsi equivarrebbe a morire. E quando la morte bussa davvero, la sua unica risposta è trasformarla in un grandioso show.

Il film opera su un piano di cortocircuito semiotico costante. La sala di montaggio, dove Gideon sta faticosamente assemblando il suo ultimo film ("The Stand-Up", un evidente riferimento a "Lenny"), diventa la sua coscienza critica, il luogo dove i frammenti della sua vita vengono analizzati, criticati, scartati. Le prove del suo nuovo show di Broadway sono il palcoscenico della sua tirannia creativa, un'arena dove spreme fino all'ultima goccia di sudore e talento dai suoi ballerini, riflessi della sua stessa ossessione per la perfezione. E poi c'è il letto d'ospedale, che si trasforma in un surreale talk show dell'anima, dove conversa con Angelique (una celestiale e letale Jessica Lange), l'angelo della morte vestito di bianco, la musa definitiva che non chiede ispirazione ma resa. Angelique non è il tristo mietitore della tradizione, ma una critica d'arte, una confidente, l'unica spettatrice che comprende veramente il suo spettacolo. È la Beatrice di una Divina Commedia intrisa di anfetamine e Dexedrina, che lo guida non verso il Paradiso, ma verso l'accettazione del "game over".

La struttura narrativa è un capolavoro di montaggio associativo che anticipa decenni di cinema postmoderno. Fosse e il suo leggendario montatore Alan Heim frantumano la linearità temporale, intrecciando passato, presente e fantasia in un flusso inarrestabile. Un'audizione per un musical ("On Broadway") si dissolve nel ricordo di uno squallido numero di burlesque. Un dialogo con l'ex moglie diventa un numero cantato e ballato pieno di recriminazioni. L'apice di questa tecnica è la sequenza agghiacciante in cui le immagini reali di un'operazione a cuore aperto vengono montate in parallelo con una riunione dei produttori dello show, che discutono freddamente di quanto costerà alla produzione la sua eventuale morte. Qui, "All That Jazz" trascende il cinema: diventa un saggio visivo sulla spietata mercificazione dell'arte e dell'artista, dove il corpo del creatore è solo un'altra voce nel budget. L'estetica è quella di un espressionismo da nightclub, con le sue ombre nette, i suoi neon abbaglianti e il sudore che brilla sui corpi tesi dei ballerini, veri e propri geroglifici di una disperazione sensuale.

Il film è profondamente radicato nel suo contesto, la fine degli anni '70, la cosiddetta "Me Decade". È l'epitaffio dell'edonismo sfrenato e della voracità narcisistica di un'intera generazione di artisti emersa dalla New Hollywood. Joe Gideon è l'archetipo dell'autore-demiurgo di quell'epoca: geniale, dispotico, infedele, dipendente da ogni sorta di stimolante per sostenere un ritmo di vita e lavoro insostenibile. La sua filosofia, "It's showtime, folks!", è un mantra esistenziale, un grido di battaglia contro il vuoto, un modo per dare forma e senso al caos della vita attraverso la disciplina ferrea della performance. In questo, Gideon/Fosse assomiglia a certi protagonisti della letteratura confessionale americana, da John Berryman a Robert Lowell: artisti che hanno usato la loro vita come materia prima per un'arte spietatamente onesta, pagandone il prezzo con la propria salute mentale e fisica.

Ma è nel finale che "All That Jazz" si eleva a un livello di pura trascendenza cinematografica. Dopo aver attraversato le cinque fasi del lutto (negazione, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione) in una serie di numeri musicali onirici, Gideon mette in scena la sua stessa morte come un colossale spettacolo in stile Las Vegas. Sulle note di "Bye Bye Love", saluta tutte le donne della sua vita, che lo applaudono e lo baciano mentre percorre un corridoio di luci al neon verso un body bag nero, ultimo sipario, ultimo costume di scena. Non c'è autocommiserazione, non c'è tragedia. C'è solo la consapevolezza ultima che ogni cosa, persino l'estinzione, può essere trasformata in arte. È un atto di un'audacia creativa senza precedenti, la mossa finale di un coreografo che riesce a orchestrare persino il proprio arresto cardiaco. È la celebrazione della vita attraverso l'accettazione della morte, il riconoscimento che l'unica immortalità concessa all'artista risiede nell'opera che lascia dietro di sé, anche se quell'opera è il racconto della sua stessa dissoluzione.

"All That Jazz" è più di un film; è un elettrocardiogramma dell'anima, una confessione danzata, un'ultima, sfolgorante piroetta sull'orlo dell'abisso. È un'opera che, come il suo protagonista, fuma troppo, lavora troppo, ama troppo e brucia la candela da entrambi i lati, sapendo che la luce sarà più intensa, anche se più breve. Bob Fosse è morto nel 1987 per un attacco di cuore, quasi a voler confermare la profezia del suo film. Ma ci ha lasciato questo monumento fiammeggiante al costo della creatività, un musical che non si canta con la voce, ma con il battito irregolare di un cuore che ha dato tutto per un ultimo, indimenticabile, applauso.

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