Tutta la bellezza e il dolore
2022
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Regista
Esistono i documentari, e poi esistono opere come Tutta la bellezza e il dolore di Laura Poitras. Non è un film, è un'arringa. Non è una biografia, è un'autopsia. Non è un racconto, è un'arma. Vincitore del Leone d'Oro a Venezia (un'impresa quasi mitologica per un documentario), il film di Poitras trascende ogni definizione di genere per diventare un trattato spietato e lucidissimo sul potere, sulla memoria e sulla capacità dell'arte non solo di testimoniare il dolore, ma di trasformarlo in un atto di giustizia. È un'opera che si insinua sotto la pelle e che consacra la sua protagonista, la fotografa Nan Goldin, a icona di una resistenza tanto intima quanto politica.
La cifra stilistica più brillante del film, e la chiave per comprenderne l'intento, risiede nella sua struttura a doppia elica. Laura Poitras, che ha già dissezionato le architetture del potere in Citizenfour, intreccia magistralmente due linee temporali che si illuminano a vicenda. Nel Presente seguiamo Nan Goldin e il suo gruppo di attivisti, P.A.I.N., nella loro crociata quasi suicida contro la famiglia Sackler, i mecenati tossici dell'arte, arricchitisi creando e alimentando la crisi degli oppioidi con l'OxyContin. Questa parte è girata come un thriller di spionaggio, con azioni di protesta ("die-in") pianificate meticolosamente nei templi sacri dell'arte come il Guggenheim e il Louvre. È la cronaca di Davide contro un Golia farmaceutico e filantropico.
Nel Passato (La Confessione Intima): Attraverso le sue stesse fotografie e la sua voce roca e malinconica, Goldin ci guida in un viaggio nella sua vita. Non è una biografia convenzionale, ma un'immersione nel suo archivio di cicatrici: il suicidio della sorella Barbara, schiacciata dal perbenismo suburbano; la scoperta di una "famiglia scelta" nella controcultura queer di Boston e New York; la brutalità della violenza domestica; la devastazione dell'AIDS; la propria dipendenza. Poitras non alterna semplicemente queste due storie: dimostra che sono la stessa storia. La rabbia del presente è alimentata dal dolore del passato.
Ecco l'intento della regista e la potente metafora del film: i Sackler non sono un'anomalia, ma il sintomo più recente di una malattia sistemica americana e, più in generale, capitalista. La parabola che Poitras costruisce è cristallina: le stesse forze che hanno portato alla morte di sua sorella—la stigmatizzazione della diversità, il controllo dei corpi non conformi attraverso un linguaggio psichiatrico punitivo, l'ipocrisia di una società perbenista—sono le medesime che hanno permesso all'AIDS di falcidiare la sua comunità nell'indifferenza generale, perché le vittime erano "altri" (gay, tossici, artisti). E sono, ancora una volta, le stesse forze che hanno permesso ai Sackler di trarre profitto dal dolore, sapendo che le prime vittime della dipendenza da oppioidi sarebbero state persone marginalizzate, la cui sofferenza era, per il sistema, un costo accettabile. Il film dimostra che la frase "tutta la bellezza e il dolore" non è una semplice giustapposizione. Il dolore (il sangue versato, bloodshed) è il prezzo che viene pagato da determinate comunità affinché un'altra parte della società possa godere della "bellezza" (i profitti, le ali dei musei intitolate ai mecenati, una finta rispettabilità). L'intento di Poitras è svelare questa connessione oscena.
Per comprendere la lotta di Nan Goldin, bisogna comprendere la sua arte. La sua fotografia è l'antitesi dell'estetica patinata. È un atto di realismo brutale e di amore incondizionato. Con la sua celebre serie The Ballad of Sexual Dependency, Goldin ha fatto qualcosa di rivoluzionario: ha elevato i momenti intimi, disordinati e spesso dolorosi della sua vita e di quella della sua "tribù" a soggetto artistico. Le sue immagini di drag queen che si truccano, di amanti a letto, di volti tumefatti, non sono voyeurismo. Sono testimonianze. In questo, Nan Goldin è l'erede diretta di Caravaggio. Come il maestro barocco scandalizzava la sua epoca usando i volti di prostitute e popolani per rappresentare Madonne e santi, così Goldin trova il sacro, la bellezza e una profonda umanità nei volti e nei corpi di coloro che la società preferirebbe ignorare o nascondere. La sua macchina fotografica non giudica; santifica.
È proprio perché ha passato la vita a rendere visibile l'invisibile che la sua lotta contro i Sackler acquista un peso morale inattaccabile. Non è un'attivista qualunque; è una sacerdotessa della memoria che ha visto la sua comunità decimata due volte da due diverse epidemie, nate dalla stessa matrice di avidità e indifferenza. Il suo film che ci dice che ogni fotografia, ogni opera d'arte, ogni ricordo personale può diventare un'arma quando una comunità decide che il proprio dolore non sarà più messo a tacere. E questa, più di ogni altra, è una lezione che merita un posto d'onore nel Canone.
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