Americani
1992
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Regista
Esistono gironi dell'inferno che Dante non ha mai immaginato, non perché privi di fiamme o di tormenti fisici, ma perché la loro pena è squisitamente moderna, spirituale, verbale. Uno di questi gironi è un ufficio immobiliare di Chicago, perennemente battuto da una pioggia che non lava via nulla, dove un gruppo di venditori è intrappolato in un purgatorio capitalista dal quale non c'è via d'uscita, se non l'abisso. Questo è il palcoscenico di Americani (Glengarry Glen Ross), l'adattamento cinematografico di James Foley della pièce di David Mamet, vincitrice del Pulitzer. Un'opera che non è semplicemente un film, ma un saggio filmato sulla disintegrazione del sogno americano, un oratorio blasfemo la cui musica è composta di bugie, imprecazioni e disperazione.
La pellicola si apre con una sequenza che non esisteva nell'opera teatrale, un colpo di genio aggiunto da Mamet stesso in fase di sceneggiatura. Un emissario del quartier generale, Blake, interpretato da un Alec Baldwin luciferino in uno dei più grandi e folgoranti monologhi della storia del cinema, scende come un angelo sterminatore per dettare le nuove, spietate regole del gioco. "Always Be Closing". ABC. Un mantra che suona come un editto divino e una condanna a morte. In sette minuti di pura brutalità verbale, Baldwin non si limita a motivare; egli eviscera, umilia, smonta l'essenza stessa dei suoi sottoposti, riducendoli a mere funzioni economiche. Il suo discorso non è un semplice pezzo di bravura attoriale, è la dichiarazione d'intenti del film, la chiave di volta che espone la teologia spietata di un sistema in cui il valore di un uomo è misurato unicamente dal suo ultimo contratto firmato. È il Sermone della Montagna rovesciato, pronunciato da un demone in abito sartoriale.
Da quel momento, il film si rinchiude in una claustrofobia che ricorda più il teatro da camera di Pinter o il Kammerspiel tedesco che il cinema americano convenzionale. Foley intrappola i suoi personaggi in due soli luoghi: l'ufficio decrepito della Premiere Properties e un ristorante cinese dall'altra parte della strada, un limbo illuminato al neon dove le confessioni e i complotti prendono forma tra una tazza di caffè e l'altra. La fotografia di Juan Ruiz Anchía dipinge un mondo crepuscolare, quasi monocromatico, dove la pioggia incessante che sferza le finestre agisce come un costante memento mori, un sudario liquido che avvolge la città e le anime che la abitano. Visivamente, si avverte l'eco della desolazione urbana di Edward Hopper; ogni inquadratura sembra catturare uomini soli, intrappolati in spazi che promettono connessione ma offrono solo isolamento.
Ma il vero protagonista, il vero motore immobile di Americani, è il linguaggio. Il "Mamet-speak" è un dialetto a sé stante, una forma di poesia urbana, brutale e ritmica. È un torrente di ripetizioni, pause, interruzioni, volgarità e frasi smozzicate che mima la febbrile e disarticolata lotta per la sopravvivenza. I dialoghi non servono solo a far avanzare la trama; sono la trama stessa. Sono duelli verbali, arie d'opera cantate da anime dannate. Ascoltare Al Pacino nel ruolo di Ricky Roma, il venditore di punta, è come assistere a una jam session di un genio del bebop. Le sue parole sono uno strumento, un'arma seduttiva che avvolge la preda (un magnifico Jonathan Pryce) in una spirale di pseudo-filosofia, aneddoti personali e lusinghe, costruendo un castello di fiducia su fondamenta di sabbia. La sua performance, che gli valse l'Oscar, è una sinfonia di carisma e veleno, l'apoteosi del venditore come artista della truffa.
All'estremo opposto dello spettro si trova Shelley "The Machine" Levene, interpretato da un Jack Lemmon la cui performance è semplicemente straziante. Lemmon, icona della commedia agrodolce di Billy Wilder, qui si spoglia di ogni vezzo per incarnare la tragedia di Willy Loman per la generazione del reaganismo. Levene è un fantasma che si aggira nell'ufficio, perseguitato dai successi passati, aggrappato disperatamente a un'ultima possibilità di riscatto, non solo economico, ma esistenziale. La sua supplica, la sua rabbia, la sua finale, patetica confessione, sono il cuore sanguinante del film. Il suo arco narrativo è la parabola definitiva sulla crudeltà di un sistema che divora i suoi figli non appena smettono di essere produttivi. È l'uomo che ha creduto nel sogno, l'ha vissuto e ora ne viene espulso senza tanti complimenti.
A completare questo coro greco della disperazione ci sono Ed Harris, un vulcano di rabbia repressa e paranoia, e Alan Arkin, l'incarnazione della sconfitta rassegnata, due facce della stessa medaglia di impotenza. E poi c'è Kevin Spacey, il cui John Williamson, il capoufficio, è un capolavoro di freddezza burocratica. Non è malvagio come Blake; la sua è una crudeltà più insidiosa, quella del piccolo uomo con un piccolo potere che lo esercita con meticolosa, impersonale precisione. È il custode delle "leads", i contatti dei potenziali clienti, che nel microcosmo del film assumono lo status di reliquie sacre, di unica via per la salvezza.
Americani è un film nato negli anni '90 ma concepito negli anni '80, e si erge come il più potente epitaffio dell'etica "greed is good" di quel decennio. Mamet non condanna i singoli uomini; mette a nudo il sistema che li forgia e li distrugge. Questi venditori non vendono terreni in Florida; vendono una versione tossica e irraggiungibile del successo, una promessa di felicità legata a un contratto. E nel farlo, vendono la propria anima, pezzo per pezzo. La rapina che avviene fuori campo e che costituisce l'esile filo della trama poliziesca è quasi un MacGuffin. Il vero crimine non è il furto dei contatti, ma il furto sistematico della dignità umana che avviene ogni giorno, alla luce del sole, in quell'ufficio.
C'è una profondità quasi metafisica nel modo in cui il film esplora il concetto di mascolinità in crisi. Questi sono uomini definiti dalla loro capacità di "chiudere" un affare. La loro virilità è direttamente proporzionale al loro fatturato. Quando questa capacità viene meno, tutto il loro mondo crolla. La loro aggressività, il loro cameratismo tossico, le loro vanterie non sono altro che l'armatura fragile di un ego terrorizzato dall'irrilevanza. È una lotta darwiniana combattuta non con zanne e artigli, ma con aggettivi e clausole contrattuali.
Rivedere Americani oggi significa constatare la sua spaventosa preveggenza. Il film anticipa le ansie dell'economia post-industriale, la precarietà del lavoro, la cultura della performance a tutti i costi che definisce il XXI secolo. Levene, Roma, Moss e Aaronow sono gli antenati spirituali dei lavoratori della gig economy, costantemente sotto valutazione, perennemente a un passo dal baratro. La loro tragedia non è un pezzo da museo, ma uno specchio in cui, nostro malgrado, continuiamo a rifletterci. È un'opera perfetta, sigillata nella sua disperazione come un insetto nell'ambra, un meccanismo a orologeria di scrittura, recitazione e regia che ticchetta inesorabilmente verso un finale di inevitabile rovina. Un capolavoro gelido e incandescente, che ci lascia con l'amaro sapore della pioggia e la consapevolezza che, a volte, il caffè è davvero solo per chi chiude i contratti.
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