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Anna dei miracoli

1962

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Un film può essere un pugno nello stomaco. Un’aggressione fisica, un assalto sensoriale che lascia lo spettatore senza fiato, esausto ma in qualche modo purificato. Questo è Anna dei miracoli (The Miracle Worker, 1962) di Arthur Penn, un’opera che trascende la sua origine teatrale per diventare un Kammerspiel cinematografico di una violenza psicofisica quasi insostenibile, un duello all'ultimo sangue combattuto non per la vita, ma per qualcosa di infinitamente più prezioso: la nascita di un'anima. Dimenticate la patina agiografica che spesso ammanta le storie di disabilità e resilienza; il film di Penn è un'opera brutale, primordiale, un corpo a corpo che si svolge nell'oscurità di una mente e nella claustrofobia di una casa del profondo Sud americano post-bellico.

La pellicola si apre su un trauma, la genesi dell'oscurità di Helen Keller, ma è un prologo quasi ingannevole. Il vero cuore pulsante del dramma non è la condizione di Helen, ma l'arrivo di Annie Sullivan, interpretata da una Anne Bancroft la cui durezza e determinazione scolpiscono ogni inquadratura. Non è un’istitutrice amorevole, non è un’eroina da romanzo vittoriano. È un Prometeo ostinato e ferito, una scienziata dell'anima armata di un'unica, incrollabile convinzione: che il linguaggio sia la scintilla divina che separa l'essere umano dall'animale. La sua pedagogia non è un sussurro, ma un urlo; la sua maieutica non è un dialogo, ma una lotta. In questo, il film si eleva a un'altezza filosofica vertiginosa. Se, come sosteneva Wittgenstein, "i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo", Helen Keller non vive in un mondo limitato. Vive nel non-mondo, in un caos pre-cosmico di sensazioni pure e istinti selvaggi. È una creatura magnifica e terribile, un golem di carne intrappolato in un silenzio nero, e Annie Sullivan è la sua Dottoressa Frankenstein, decisa a infonderle la vita della coscienza attraverso l'elettroshock della disciplina e la magia della sintassi.

E che creatura è la Helen di Patty Duke. Entrambe le attrici, riprendendo i ruoli che le consacrarono a Broadway (e che valsero a entrambe un meritatissimo Oscar), non recitano: combattono. La loro interazione è una coreografia di brutalità. Si graffiano, si mordono, si spintonano, si trascinano sul pavimento in una danza macabra che è al contempo sottomissione e ribellione. Penn, un regista che avrebbe poi definito l'estetica della Nuova Hollywood con opere come Gangster Story e Piccolo grande uomo, evita magistralmente la trappola del "teatro filmato". La sua macchina da presa è un terzo combattente nell'arena. Usa primi piani soffocanti, profondità di campo che schiacciano i personaggi l'uno contro l'altro nello spazio angusto della casa, e una fotografia in bianco e nero espressionista, firmata da Ernest Caparrós, che trasforma la residenza dei Keller in un labirinto gotico, un'estensione fisica della prigione mentale di Helen. L'influenza del realismo quasi documentaristico si fonde con una stilizzazione che ricorda a tratti il cinema di un Dreyer o di un Bresson, concentrato sulla sofferenza dei corpi e sulla trascendenza dello spirito.

La sequenza della sala da pranzo, lunga quasi dieci minuti e quasi completamente muta, è una delle vette assolute della storia del cinema. Non è una semplice lezione di buone maniere. È un esorcismo laico. Annie non sta insegnando a Helen a usare un cucchiaio; sta imponendo l'ordine sul caos, sta tracciando il primo, fondamentale confine tra l'Io e il mondo esterno. È una battaglia cosmologica in miniatura, dove ogni boccone rifiutato, ogni piatto scagliato a terra, è un atto di resistenza contro la nascita della consapevolezza di sé. In quei minuti di furia e sudore, Penn condensa l'intero arco narrativo del film: la violenza necessaria per forgiare un essere sociale, il dolore ineluttabile che accompagna ogni vera forma di apprendimento. Si potrebbe quasi azzardare un parallelo con la brutalità estetica di un Francis Bacon: i corpi si contorcono, le bocche si spalancano in urla silenziose, la carne diventa il campo di battaglia dell'esistenza.

Il contesto socio-culturale è fondamentale. L'Alabama del 1887 non è solo uno sfondo. È un mondo di strutture patriarcali in decomposizione, rappresentato dal Capitano Keller, un uomo autoritario ma in fondo debole, incapace di gestire il caos che regna nella sua stessa casa. La famiglia Keller, con la sua pietà soffocante e il suo amore colpevole, ha assecondato la natura selvaggia di Helen, creando un mostro per eccesso di compassione. Annie Sullivan, proveniente dal Nord, pragmatica, segnata da un passato di povertà e dolore, rappresenta una forza di modernità quasi crudele. È l'agente esterno che deve recidere il cordone ombelicale di un affetto disfunzionale per permettere una vera nascita. Se L'Enfant Sauvage di Truffaut, girato quasi un decennio dopo, è un saggio illuminista sulla civilizzazione, Anna dei miracoli è il suo corrispettivo gotico-americano, un racconto di frontiera dove la natura selvaggia non è la foresta, ma la psiche umana. È un Cuore di tenebra domestico, in cui Annie Sullivan compie la sua catabasi non lungo un fiume africano, ma nei corridoi bui di una casa e nei meandri ancora più oscuri di una mente isolata.

Ma il film non è solo un trattato sulla pedagogia o un dramma psicologico. È un'opera profondamente meta-testuale sul potere del Segno. Per tutta la durata, Annie traccia instancabilmente lettere sul palmo della mano di Helen. Sono significanti vuoti, gesti senza significato, un codice morto che la bambina ripete a pappagallo. La genialità del film sta nel farci provare la frustrazione di questo scollamento, nel farci desiderare ardentemente il momento dell'epifania. E quando quel momento arriva, alla pompa dell'acqua, è una delle rivelazioni più potenti mai impresse su pellicola. L'acqua fredda che scorre sulle mani di Helen, mentre Annie le scrive inequivocabilmente W-A-T-E-R, non è solo un collegamento sinaptico che si accende. È un battesimo. È il Verbo che si fa carne, o meglio, che si fa coscienza. L'esplosione di comprensione sul volto di Patty Duke, il suo febbrile correre da un oggetto all'altro per chiederne il "nome", è la rappresentazione cinematografica della creazione del mondo. In quel momento, Helen non impara una parola; scopre l'universo, e con esso, scopre se stessa. Il suo primo, balbettato tentativo di chiamare la sua insegnante "teacher" è commovente non per sentimentalismo, ma perché è il suono di un'identità che viene alla luce.

Anna dei miracoli rimane un'opera essenziale, un monumento alla potenza del cinema fisico e alla performance attoriale intesa come atto di totale dedizione. Si erge come un monolite nero e ostico, rifiutando facili consolazioni e mostrando come la nascita della coscienza, il "miracolo" del titolo, non sia un dono divino ma il risultato di una lotta estenuante, sanguinosa e profondamente umana. È il racconto demiurgico di come, attraverso la violenza ostinata dell'amore e la struttura implacabile del linguaggio, un fantasma in una macchina possa finalmente imparare a dire "Io". E a vedere il mondo.

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