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Un altro Giro

2020

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Media: 4.50 / 5

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Sotto la superficie levigata e invidiabile dello stato sociale scandinavo, si annida un'angoscia silenziosa, un tedio esistenziale che nessuna casa di design o sistema scolastico efficiente sembra poter curare. Thomas Vinterberg, con Un altro giro (titolo originale Druk, "Sbronza"), immerge il bisturi proprio in questa ferita, estraendone una tragicommedia di rara intelligenza, tanto esilarante quanto desolante. Il film è il ritratto impietoso di quattro uomini di mezza età che tentano di curare la propria anima malata con una brillante e al contempo patetica scappatoia pseudo-scientifica: l'alcolismo a dosaggio controllato. I quattro protagonisti—Martin (un monumentale Mads Mikkelsen), Tommy, Peter e Nikolaj—sono amici e colleghi, insegnanti in un liceo danese. La loro vita è una palude di routine, apatia e sogni infranti. Martin, in particolare, è un fantasma: i suoi studenti lo deridono, i figli lo ignorano, il matrimonio è un relitto. L'idea, proposta da Nikolaj, è tanto folle quanto seducente: testare la teoria del filosofo e psichiatra Finn Skårderud secondo cui l'essere umano nasce con una carenza di alcol nel sangue dello 0,05‰. Mantenere questo livello costante, teorizzano, li renderà più brillanti, disinibiti e vivi.

Inizia così un esperimento che è, in realtà, una disperata richiesta di evasione. Inizialmente, la teoria funziona a meraviglia. L'alcol diventa una micro-dose di carisma. Martin si trasforma in un professore trascinante, ritrova una connessione con la moglie, torna a sorridere. I quattro amici riscoprono una complicità euforica, un cameratismo maschile rinvigorito dal segreto condiviso e dalle sbornie diurne. Il film, qui, è caustico nel suggerire che la versione migliore di questi uomini—e per estensione, della nostra società performativa—sia raggiungibile solo attraverso un'anestesia chimica. La loro rinascita artificiale è la critica più feroce alla normalità che li ha spenti. Ma l'evasione è per sua natura temporanea. La "ricerca scientifica" si trasforma inevitabilmente in un'escalation incontrollata. La linea tra il 0,05‰ e la sbronza molesta viene superata con prevedibile rapidità. Il ritorno alla realtà è brutale e frammentato: matrimoni che collassano definitivamente, carriere a rischio e, nel caso del più fragile del gruppo, Tommy, una discesa nell'alcolismo puro che culmina in tragedia. L'amicizia, che li aveva uniti nell'esperimento, si rivela impotente di fronte al caos che hanno scatenato. La realtà non può essere ingannata a lungo e presenta un conto salatissimo.

Un altro giro è l'espressione matura di un cinema, quello danese, che ha fatto della dissezione delle nevrosi borghesi il suo marchio di fabbrica. Per comprendere appieno Vinterberg, bisogna tornare al suo punto di partenza: Dogma 95. Fondato con Lars von Trier, quel movimento era un puritanesimo cinematografico, un "voto di castità" che imponeva regole ferree (camera a mano, luce naturale, niente musica extradiegetica) per spogliare il cinema da ogni artificio e raggiungere una verità emotiva cruda. Il primo film Dogma, Festen - Festa in famiglia (1998) di Vinterberg, è un capolavoro di brutalità psicologica, un attacco frontale all'ipocrisia familiare girato con la precisione grezza di un documentario. Se Festen era un urlo, Un altro giro è un discorso complesso, a tratti sussurrato, a tratti urlato e infine danzato. Vinterberg ha da tempo abbandonato il corsetto di Dogma, ma ne ha interiorizzato la lezione fondamentale: il primato della performance attoriale e della verità emotiva. Film come Il sospetto (Jagten, 2012) lo mostrano già in una fase post-Dogma: una narrazione più classica, una fotografia curatissima, ma lo stesso interesse per la pressione sociale che stritola l'individuo.

Un altro giro rappresenta la sintesi perfetta del suo percorso. Ha la critica sociale e la tensione psicologica di Festen, ma le esprime con una padronanza del linguaggio cinematografico totale. Usa la musica per creare atmosfera, la fotografia per esaltare l'euforia e la malinconia, e culmina in una delle scene più memorabili e anti-dogmatiche che si possano immaginare: il ballo liberatorio e disperato di Martin. Quella danza, un'esplosione di grazia e caos, è la prova di un regista che ha raggiunto una libertà espressiva totale, capace di trovare la verità non solo nel realismo crudo, ma anche in un momento di pura e catartica trascendenza cinematografica. Questo film, inoltre, è intriso di una dimensione tragica e personale (la morte della figlia del regista all'inizio delle riprese), che lo eleva da semplice apologo sull'alcol a una celebrazione della vita, con tutta la sua imperfezione, il suo dolore e la sua insopprimibile, folle vitalità.

In conclusione, Un altro giro non è un film moralista pro o contro l'alcol. È un'opera profondamente ambigua sull'accettazione della propria mediocrità e sulla necessità, a volte, di rischiare di perdere il controllo per sentirsi di nuovo vivi. La danza finale di Martin non è una risposta. È una domanda. È un trionfo momentaneo o l'ultimo, magnifico spasmo prima del crollo definitivo? Vinterberg, con caustica genialità, ci lascia con questo dubbio, sospesi come il suo protagonista in un salto a mezz'aria tra la gioia e l'abisso.

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