Arca Russa
2002
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Regista
Un singolo battito di ciglia lungo novantasei minuti. Un respiro ininterrotto che attraversa tre secoli di storia, arte e delirio. Aleksandr Sokurov, con Arca Russa, non ha semplicemente girato un film; ha orchestrato una seduta spiritica, un’evocazione di fantasmi intrappolata in un unico, monumentale piano sequenza che sfida le fondamenta stesse della grammatica cinematografica. L’idea, nella sua folle semplicità, è un guanto di sfida lanciato non solo alla tecnica, ma alla percezione stessa del tempo filmico. Mentre il cinema di montaggio, da Ejzenštejn in poi, costruisce il significato attraverso la frattura, la collisione di immagini, Sokurov insegue un’utopia della continuità, un flusso di coscienza visivo che abolisce il taglio, la sutura, l’interruzione. È un gesto che ha più in comune con la prosa torrenziale di un Marcel Proust o con le spirali temporali di un W.G. Sebald che con la maggior parte della produzione cinematografica del suo tempo e del nostro.
Il tour de force tecnico è, ovviamente, la prima cosa che sbalordisce e che rischia, paradossalmente, di oscurare la profondità dell'opera. Il 23 dicembre 2001, dopo mesi di prove maniacali, il regista e il suo operatore, il funambolico Tilman Büttner, ebbero una sola finestra di poche ore per realizzare il loro miracolo: attraversare 33 sale del Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo, coordinando oltre duemila attori e comparse in costume, in un unico, perfetto ciak digitale. Non c'erano trucchi, non c'erano suture nascoste come nel virtuosismo hitchcockiano di Nodo alla gola o nelle più recenti alchimie digitali di Iñárritu. Qui c'era solo la danza quasi impossibile di una Steadicam, un operatore e un regista che sussurrava indicazioni, registrata su un hard disk portatile. Una singola esitazione, un inciampo, un riflesso sbagliato, e l'intero castello di carte sarebbe crollato. È un aneddoto da leggenda nerd: la quarta e unica ripresa riuscita fu completata mentre la luce del giorno svaniva e la batteria della camera si stava esaurendo. Questo non è solo un dettaglio produttivo; è la metafora perfetta del film stesso: un fragile, irripetibile momento di bellezza strappato all'inesorabile scorrere del tempo.
Ma l'audacia tecnica è interamente al servizio di un'esplorazione ontologica. Noi, lo spettatore, siamo un fantasma. La nostra soggettiva è quella di una voce narrante (lo stesso Sokurov), invisibile e disincarnata, che si ritrova a vagare per i corridoi dell'Ermitage senza sapere come o perché. Siamo un'entità fuori dal tempo, un testimone impotente. Ad accompagnarci in questo labirinto della memoria c'è un altro spettro, il Marchese de Custine, un diplomatico francese del XIX secolo, scettico e caustico, che funge da nostra guida e da nostro contraltare. Basato sulla figura storica che scrisse un celebre e critico resoconto del suo viaggio nella Russia zarista, il Marchese è l'incarnazione dello sguardo occidentale: affascinato ma condiscendente, ammaliato dalla grandiosità ma pronto a liquidarla come una copia provinciale della cultura europea. "Tutto è una copia," mormora con sufficienza.
Il dialogo tra il nostro punto di vista, intimo e russo, e quello del Marchese, esterno e critico, è il cuore pulsante del film. È il dibattito eterno dell'anima russa, sospesa tra la fascinazione per l'Europa e la rivendicazione della propria, inafferrabile unicità. Sokurov non offre risposte; mette in scena la conversazione. Attraversiamo le sale e le epoche come se fossero stanze comunicanti di un unico, immenso sogno. Incontriamo Pietro il Grande che schiaffeggia un suo generale; assistiamo a una prova teatrale sotto il regno di Caterina la Grande, che insegue i suoi cortigiani come una bambina capricciosa; spiamo una conversazione privata della famiglia dell'ultimo Zar, Nicola II, pochi anni prima della loro tragica fine, un momento di intimità familiare reso quasi insopportabile dalla nostra conoscenza del futuro. Questi incontri non sono ricostruzioni storiche pedanti; sono frammenti, impressioni, ectoplasmi di un passato che non è mai veramente passato. L'Ermitage non è un semplice sfondo, ma il personaggio principale: l'Arca del titolo, un vascello che trasporta il Dna culturale di una nazione attraverso il diluvio della Storia, quella fatta di rivoluzioni, guerre e oblio. Le opere d'arte appese alle pareti non sono decorazioni, ma silenziosi testimoni, altri fantasmi che osservano i fantasmi in carne e ossa che popolano le sale.
La fluidità del movimento di macchina crea un effetto ipnotico, quasi psichedelico. Le transizioni tra le epoche avvengono con la naturalezza illogica di un sogno. Apriamo una porta e dal XVIII secolo piombiamo nel XX, dove un direttore del museo, durante l'assedio di Leningrado, costruisce la propria bara con le assi di legno disponibili. Poi, un altro passaggio ci conduce a un ballo sfarzoso, il Gran Ballo Reale del 1913, l'ultimo grande evento della Russia imperiale. Questa sequenza finale è il culmine emotivo ed estetico del film. Per venti minuti, siamo immersi in un vortice di valzer, uniformi scintillanti e abiti sontuosi, con l'orchestra diretta nientemeno che da Valery Gergiev. È una visione di una bellezza straziante, un'elegia per un mondo sull'orlo del baratro. Sokurov, come un Visconti russo e metafisico, filma questa aristocrazia non con condanna, ma con una profonda, malinconica pietà. Sono fantasmi inconsapevoli, che danzano sull'orlo dell'abisso. È un requiem per una civiltà, tanto magnifico quanto effimero.
Se si dovesse cercare un parente cinematografico per Arca Russa, il nome di Tarkovskij verrebbe spontaneo, per la lentezza meditativa e l'ossessione per il tempo. Ma dove Tarkovskij scolpiva il tempo attraverso la stasi e la contemplazione, Sokurov lo plasma attraverso un moto perpetuo e ininterrotto. Forse un'analogia più calzante è con l'esperienza di camminare nei corridoi spettrali dell'Overlook Hotel di Kubrick, dove le tracce del passato sanguinano nel presente. O ancora, con la sensazione di essere immersi in un videogioco in prima persona progettato da un dio malinconico, un "walking simulator" attraverso l'inconscio di una nazione, dove non si può interagire, ma solo osservare, ascoltare, e sentire il peso di tutto ciò che è stato.
Quando il ballo finisce, la folla di spettri scende maestosamente lo Scalone Giordano. Il Marchese si separa da noi, scegliendo di restare nel passato. Noi, invece, proseguiamo. La nostra soggettiva ci porta verso un'uscita, ma non torniamo all'inizio, al presente. La porta si apre su un mare nebbioso, infinito. L'Arca galleggia in un oceano senza tempo. "Siamo destinati a navigare per sempre, a vivere per sempre," sussurra la nostra voce. Non c'è approdo, non c'è fine. C'è solo questo viaggio continuo, questo fardello di memoria e bellezza che fluttua in un'eternità incerta. È un finale di una potenza evocativa sconfinata, che rifiuta la consolazione della chiusura.
Arca Russa è un'opera che trascende la critica convenzionale. È un'esperienza sensoriale, un saggio filosofico, una prodezza tecnica e un poema visivo. È un film che non si limita a rappresentare la storia, ma la incarna, costringendoci a viverla come un presente continuo e ossessivo. Sokurov ha creato un unicum, un oggetto cinematografico tanto fragile nella sua concezione quanto monumentale nel suo risultato, una testimonianza definitiva del potere del cinema di manipolare, e in definitiva, di liberare lo spettatore dalle catene del tempo lineare. Un capolavoro assoluto, destinato a navigare per sempre nelle acque più profonde della settima arte.
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