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Au Hasard Balthazar

1966

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Un film duro e penetrante come un proiettile, terribile nella sua visione pessimistica della realtà, affascinante nel taglio registico che Bresson vi imprime, quasi a squadernare una realtà matrigna attraverso una pioggia di immagini scarnificate, crude, palesemente reali, con una fotografia scarna e cristallina ammantata di un bianco e nero opalescente. Bresson non si limita a inquadrare, ma cesella l'immagine e il suono con una precisione quasi maniacale, depurandoli da ogni ridondanza teatrale per giungere all'essenza del modèle, quel peculiare non-attore che per il regista francese è puro strumento di rivelazione. Le sue "immagini scarnificate" non sono prive di vita, ma svuotate di ogni artificio, capaci di farsi recipiente di una verità nuda e cruda che la recitazione convenzionale, a suo dire, tenderebbe a offuscare. È il trionfo di una cinematografia pura sulla finzione del cinéma, dove ogni gesto, ogni suono – il tintinnio di una campana, lo stridio di pneumatici, il silenzio pesante – assume un peso specifico, rivelando un mondo interiore che si nega alla mera rappresentazione psicologica.

Il protagonista di questa storia è un asino di nome Balthazar, dapprima viene allevato da Marie con amore poi venduto dal padre di lei, il suo calvario attraverso una terra ostile, nelle mani di padroni che lo torturano, lo malmenano, annientano la sua essenza di creatura vivente. Balthazar non è un semplice animale, ma l'incarnazione della sofferenza innocente, un Cristo senza corona di spine, la cui via dolorosa è la metafora di un'umanità che si macchia di crudeltà e indifferenza. Ogni nuovo padrone che incontra sul suo cammino rappresenta una sfaccettatura della miseria morale umana: dall'avidità del mugnaio all'arroganza del teppista Gérard, dalla falsa pietà del prete alla mera utilità del contadino. Il suo sguardo impassibile, pur assorbendo l'orrore, non giudica, e in questa passiva accettazione del destino si cela una dignità quasi sacra. Il suo peregrinare è un'allegoria della condizione umana, un'esistenza segnata da un'inevitabile sequenza di eventi predestinati, dove la grazia appare come un barlume fugace, quasi un'illusione, in un mondo dominato dalla brutalità.

Bresson al suo capolavoro, un’opera leopardiana nella raffigurazione della Natura, ma memore didascalicamente della lezione di certa narrativa russa come Dostoevsky o Gogol. La connessione con Giacomo Leopardi non è solo nella rappresentazione di una Natura indifferente e matrigna, ma anche nella dolorosa consapevolezza della sofferenza come condizione intrinseca dell'esistenza, un mal de vivre che attraversa ogni creatura. Echi del "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" risuonano nel mutismo carico di domande dell'asino, che pur non potendo interrogare il proprio destino, lo incarna con una potenza espressiva sconvolgente. La lezione dei giganti russi, poi, è palpabile: la disamina della depravazione umana, la ricerca di una salvezza spirituale in contesti di estrema miseria morale, la convivenza di viltà e sublimità, l'ossessiva indagine sulle zone d'ombra dell'anima. Bresson condivide con Dostoevsky la capacità di scandagliare le profondità del male e del bene, non attraverso la psicologia esplicita, ma per mezzo di azioni e reazioni che rivelano il dramma interiore.

E a proposito di Dostoevsky, pare che Bresson si sia ispirato proprio a lui per il soggetto di questo film leggendo un brano dell’Idiota in cui il Principe Myskin, arrivato a Basilea, viene svegliato la mattina seguente dal ragliare di un asino “che gli schiarisce le idee” e lo rasserena immediatamente. Quest'aneddoto non è solo una curiosità filologica, ma una chiave di lettura profonda: per Bresson, la purezza dell'animale, la sua innocenza primordiale, la sua capacità di esistere senza pretese o secondi fini, diviene un catalizzatore per la percezione del divino o quantomeno del puro. Balthazar, con la sua presenza muta e la sua accettazione del destino, è uno specchio in cui l'umanità può (o dovrebbe) riflettersi, un essere che, come l'asino dostoevskiano, pur tra la crudeltà del mondo, può schiarire le idee, rivelare una verità scomoda ma essenziale sulla natura umana.

Una scena che riaffiora spesso alla memoria è il battesimo di Balthazar da parte di Marie e suo fratello, i due bambini fanno entrare l’asinello in casa poi gli aspergono il muso con l’acqua della santità e gli fanno assaggiare il sale della saggezza. L’asino sembra gradire più la saggezza. Questa sequenza inaugurale è di una potenza simbolica straordinaria, un rito di iniziazione che consacra Balthazar a una sorte di purezza originale e, ironicamente, al calvario che seguirà. È l'ultima espressione di innocenza prima che l'asino venga gettato nel vortice della crudeltà umana. Il contrasto tra l'ingenuità dei bambini che tentano di infondere spiritualità e la brutalità del mondo che si prepara a divorare Balthazar è straziante. La "saggezza" che Balthazar sembra apprezzare non è quella umana fatta di calcolo o astuzia, ma forse quella di un'accettazione silenziosa del proprio destino, una saggezza primordiale che gli consente di attraversare il male senza esserne corrotto nella sua essenza.

Au Hasard Balthazar è un film che respira il tragico fatalismo del Giansenismo, una corrente di pensiero che influenzò profondamente Bresson, vedendo la grazia come un dono arbitrario e la natura umana intrinsecamente corrotta. L'asino, simbolo di umiltà e sofferenza, diventa veicolo di questa grazia incompresa e della sua negazione. Il film, pur nella sua apparente semplicità narrativa, è un'opera di un'estrema complessità filosofica e spirituale, che interroga la presenza del male, la possibilità di redenzione e il significato della vita in un universo indifferente. La sua influenza è stata enorme, proiettando un'ombra lunga su registi del calibro di Michael Haneke o Béla Tarr, che hanno saputo raccogliere l'eredità di un cinema contemplativo, spogliato, capace di rivelare l'anima attraverso la materia, e che continua a sfidare lo spettatore a confrontarsi con le questioni più pressanti dell'esistenza.

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