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Bande à part

1964

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Jean-Luc Godard, con la sua consueta attitudine all’esplorazione delle pulsioni umane, dipinge quest’opera in cui un trio di personaggi incrocia i propri destini e le proprie emozioni, in un balletto esistenziale che è tanto un omaggio al cinema quanto una sua deostruzione giocosa. "Bande à part" si colloca in quel fulgido periodo della Nouvelle Vague in cui il regista franco-svizzero, già affermatosi con l'iconoclasta "À bout de souffle", continuava a smontare e rimontare la grammatica cinematografica, trasformando ogni inquadratura in una dichiarazione di intenti. Non si tratta solo di sentimenti umani, ma di sentimenti cinematografici, di come la vita imiti l'arte, o viceversa, in un circolo virtuoso di rimandi e citazioni.

Franz e Arthur conoscono Odile, giovane fanciulla parigina, e prendono a corteggiarla. Un triangolo destinato a non chiudersi mai in un vertice unico, ma a fluttuare, come le nuvole sopra Senna, in una perenne incertezza emotiva. Franz è più elegante, con espressione vagamente malinconica, incarnando forse l'anima più contemplativa e, per certi versi, tragica del trio. Arthur è più trasandato e spensierato, sempre pronto con le sue battute a sdrammatizzare, il volto della spensieratezza nichilista, l'energia vitale che spinge all'azione, sebbene spesso senza meta. Odile, dal canto suo, è una figura eterea, quasi una musa passiva, il catalizzatore involontario delle loro avventure, la personificazione di un'innocenza ancora intatta eppure già sfiorita dal languore di un'esistenza senza scopi precisi. Non sono semplici personaggi, ma archetipi di una gioventù disorientata ma intrinsecamente libera, che si muove in un mondo che non offre più grandi narrazioni, se non quelle che essi stessi si creano, mutuandole da romanzi o film di serie B.

I tre prendono a vagabondare per una Parigi autunnale con la Simca cabriolet di Arthur che è un po’ come lui: malandata e accattivante, un guscio scassato ma capace di contenere sogni e fughe. Parigi, in Godard, non è mai un semplice sfondo; è un personaggio silenzioso ma onnipresente, complice e spettatrice, che riflette l'umore mutevole dei protagonisti. L'autunno non è solo una stagione, ma una metafora di un'epoca, quella dei primi anni Sessanta, in cui l'euforia del dopoguerra iniziava a cedere il passo a una sottile malinconia esistenziale, a un senso di vuoto colmato da giochi e finzioni. I boulevard parigini, i bistrot fumosi e le strade bagnate dalla pioggia diventano il teatro di un'epopea in miniatura, un'odissea urbana dove la noia è il motore della creatività e il crimine un semplice gioco di ruolo.

Chiacchierando oziosamente in un bistrot a Franz viene in mente di rapinare il pensionante della zia di Odile, un distinto signore che vive in affitto in mansarda e che sembra custodire un discreto gruzzolo. L'idea stessa della rapina nasce non da necessità o vera criminalità, ma da una sorta di capriccio adolescenziale, un'emulazione goffa dei film noir americani tanto amati da Godard e dai suoi compagni della Cahiers du Cinéma. Al momento della rapina, ovviamente, tutto ciò che poteva andare storto andrà storto: la porta della casa non si apre, il denaro non si trova, la zia di Odile oppone resistenza. È l'anti-rapina per eccellenza, una dimostrazione lampante che questi giovani non sono veri criminali, ma solo attori improvvisati su un palcoscenico improbabile, la cui messa in scena è destinata al fallimento. Questo fiasco non è un punto debole della trama, ma un suo pilastro, una dichiarazione programmatica sulla vacuità delle imprese umane quando mancano di autentica spinta o di un reale fine, trasformando la violenza in buffoneria, il dramma in commedia dell'assurdo.

Tante le cose che colpiscono di questo film: la voce narrante fuori campo che descrive come in un romanzo le gesta dei tre e le loro più segrete speculazioni, una scelta che non solo aggiunge una dimensione letteraria, ma che funge anche da commento brechtiano, rompendo l'illusione cinematografica e invitando lo spettatore a una riflessione più distaccata. È la voce stessa del regista-narratore, che guida, giudica, e talvolta persino contraddice ciò che vediamo, sottolineando la natura costruita della realtà e del cinema stesso. L’atmosfera scanzonata, quasi da commedia degli equivoci, contrasta in modo sublime con la malinconica cornice autunnale di una Parigi mai così bella, un ossimoro visivo e narrativo che definisce l'essenza stessa di "Bande à part".

Alcune scene, in particolare, sono entrate nell'immaginario collettivo, vere e proprie gemme di spontaneità e invenzione. Si pensi alla scena del ballo nel bistrot, il celebre "Madison dance": per quasi tre minuti, i tre personaggi si muovono al ritmo di una musica effimera, in un momento di pura e quasi ipnotica gioia, interrotta solo da momenti di silenzio assoluto, nei quali il narratore commenta i loro pensieri più intimi. Questo intermezzo di danza è un’esplosione di vita che cristallizza l’amicizia e la leggerezza, un rito quasi tribale che celebra l'istante presente, diventato un simbolo della Nouvelle Vague e un'ispirazione per innumerevoli registi, da Bertolucci a Tarantino. Oppure ancora, quella della corsa sfrenata per i saloni del Louvre per battere il record di visita al museo: un atto di ribellione giocoso contro l'autorità, contro la seriosità dell'arte e della cultura, un impeto anarchico di vitalità giovanile che sfida le convenzioni e cerca la libertà anche negli spazi più sacri. È una corsa verso il nulla, ma piena di significato, che esprime la sete di vivere e di superare i propri limiti, anche se solo per un effimero record personale. E non si può dimenticare il duello mimato per strada tra Pat Garrett e Billy The Kid, un omaggio sfrontato e auto-referenziale al cinema americano, in particolare al genere western. I tre amici, giocando a essere i loro eroi cinematografici, mostrano quanto la cultura popolare e l'immaginario hollywoodiano avessero permeato la mente della gioventù francese, trasformando la vita quotidiana in una continua performance, un'imitazione delle finzioni che amavano.

Un film fresco, frizzante, balsamico, come una brezza estiva che porta ristoro in una giornata afosa. Ma è anche un film malinconico, che sotto la patina della leggerezza cela una profonda riflessione sulla solitudine, sulla precarietà dei legami e sull'incertezza del futuro. "Bande à part" non è solo un inno alla giovinezza e alla libertà, ma anche una meditazione sulla loro intrinseca fragilità, un ritratto di un'età e di un'epoca in cui la spensieratezza si accompagnava a un senso di disorientamento. La sua "freschezza" non è solo stilistica, ma deriva dalla sua capacità di catturare un'emozione autentica, quella di un'attesa senza nome, di un destino che si scrive istante per istante, e di lasciare allo spettatore un sapore agrodolce, ma innegabilmente inebriante.

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