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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Barton Fink - È successo a Hollywood

1991

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Regista

Un albergo può essere uno stato della mente. L'Hotel Earle di Barton Fink, più che una topografia losangelina, è una geografia dell'anima in decomposizione. Un luogo mefitico, sudato, le cui pareti trasudano una colla giallastra che è la secrezione fisica del blocco dello scrittore, un'escrescenza organica dell'ansia creativa. I fratelli Coen, nel 1991, freschi del plauso critico per Miller's Crossing, decisero di scrivere un film su un autore teatrale newyorkese che non riesce a scrivere. Il risultato fu una sceneggiatura stesa in tre settimane su un autore teatrale newyorkese che non riesce a scrivere. La meta-narrazione, quel serpente che si morde la coda, è sempre stata il gioco preferito di Joel e Ethan, ma mai come in Barton Fink il gioco è diventato così serio, così febbrile, così dannatamente infernale.

Il film si apre nel 1941. Barton Fink (un John Turturro monumentale, in uno stato di grazia attoriale che definisce una carriera) è il nuovo vate di Broadway. Il suo dramma, "Bare Ruined Choirs", che celebra l'uomo comune, il pescatore, l'operaio, gli vale l'etichetta di O'Neill della sua generazione e, inevitabilmente, una chiamata da Hollywood. La Capitol Pictures gli offre una cifra principesca per scrivere sceneggiature, a cominciare da un film di wrestling con Wallace Beery. Fink, con una miscela di snobismo intellettuale e malcelata ambizione, accetta, convinto di poter creare un nuovo tipo di teatro per le masse, un cinema che parli davvero al "common man". È l'inizio di una discesa in un purgatorio personale che ha le sembianze di un albergo vuoto e opprimente.

L'Hotel Earle non è un semplice fondale scenografico; è un organismo vivente, un'entità lovecraftiana la cui architettura art déco in disfacimento riflette il collasso psicologico del suo unico ospite visibile. Il sound design è un capolavoro di tortura minimalista: il ronzio costante, forse di una zanzara o dei cavi elettrici, il pianto sommesso di una donna nella stanza accanto, il suono umido della carta da parati che si stacca. È un ambiente che respira e soffoca, un'anticamera dell'inferno che sembra uscita da un racconto di Kafka riletto da David Lynch. La stanza di Barton non è dissimile dal monolocale di Henry Spencer in Eraserhead; entrambi sono spazi mentali, prigioni dell'inconscio dove l'orrore del quotidiano si fa tangibile e mostruoso. Le pareti dell'Earle, come la carne di un film di Cronenberg, si ribellano, espellendo la colla come un fluido corporeo malato.

Il dramma di Barton non è solo il non riuscire a scrivere, ma il suo solipsismo terminale. Egli ama l'idea dell'uomo comune, l'astrazione, l'archetipo letterario, ma è terrorizzato e infastidito dalla sua incarnazione. Questa incarnazione ha il volto bonario e il corpo massiccio di Charlie Meadows (un John Goodman che oscilla tra una cordialità paterna e una minaccia ctonia), il vicino di stanza venditore di assicurazioni. La loro relazione è il cuore pulsante e necrotico del film. Barton lo usa come un campione da laboratorio, un feticcio del proletariato da studiare per la sua arte, ignorando completamente la sua umanità, i suoi racconti, la sua disperazione. È il peccato originale dell'intellettuale: feticizzare la realtà invece di viverla. I Coen mettono in scena un contrappunto satirico e crudele tra l'arte "impegnata" di Barton e la vita, quella vera, rumorosa, sofferente e infine terrificante, che bussa alla sua porta.

Hollywood, nel frattempo, si rivela un circo grottesco. Jack Lipnick (un Michael Lerner da Oscar) è il boss dello studio, una caricatura febbrile di Louis B. Mayer, un tiranno volubile che prima idolatra e poi umilia Barton con la stessa, identica foga. "The life of the mind," gli dice, "We're interested in stories about people. The common man." Ma le sue parole sono vuote, slogan di un'industria che non produce sogni, ma merci. Il più tragico incontro di Barton è con W.P. Mayhew (un dolente John Mahoney), un grande romanziere del Sud alcolizzato e ridotto a sfornare sceneggiature senza valore. Mayhew è un esplicito surrogato di William Faulkner, uno dei tanti giganti della letteratura americana (come F. Scott Fitzgerald) che andarono a Hollywood in cerca di denaro e vi trovarono l'oblio creativo. È il fantasma del futuro di Barton, un monito vivente sulla fine che fa l'arte quando diventa mestiere.

Il film, che fino a metà sembra una commedia nera sulla crisi d'ispirazione, vira improvvisamente verso l'horror esistenziale. La scena in cui Barton, dopo una notte di presunta catarsi creativa con Audrey (Judy Davis), la segretaria-amante-ghostwriter di Mayhew, si sveglia e la trova massacrata accanto a lui, è uno spartiacque. Da quel momento, la realtà si sfalda completamente. L'aiuto che chiede a Charlie non è più quello di un vicino, ma di un complice, di un confessore, di un demone custode. E qui John Goodman compie la sua metamorfosi definitiva. Charlie Meadows non è un semplice venditore. È Karl Mundt, un serial killer psicopatico il cui modus operandi è decapitare le sue vittime. "Fascisti," li chiama, in un impeto di rabbia populista che fa il paio con la retorica idealizzata di Barton. Mundt è l'uomo comune nella sua forma più primordiale e violenta, l'irrazionale che erompe e distrugge le fragili costruzioni dell'intelletto.

La sequenza finale nell'albergo in fiamme è una delle vette del cinema coeniano, un'apocalisse espressionista che cita tanto il noir classico quanto l'iconografia biblica. Mentre il corridoio dell'Earle diventa un letterale corridoio infernale, Mundt/Goodman avanza imperturbabile, fucile in pugno, urlando "Heil Hitler!" e proclamando di essere al servizio della gente comune. È una rivelazione agghiacciante: il populismo, privato della ragione e dell'empatia, si trasforma in fascismo. L'uomo comune, tanto idealizzato da Barton, si rivela essere una forza di distruzione nichilista e antisemita, l'esatto opposto del suo eroe da palcoscenico. Il fuoco purifica e distrugge, lasciando Barton solo con una scatola misteriosa che Charlie gli ha affidato.

Cosa c'è nella scatola? "It's not my head," assicura Mundt, ma la risposta più probabile è che contenga proprio la testa di Audrey. Non importa. La scatola è il MacGuffin definitivo: un contenitore di puro orrore, il prodotto tangibile della "vita della mente" di Barton, il peso della sua colpa e della sua cecità. È l'oggetto che incarna il fallimento totale del suo progetto artistico e umano.

La scena finale è un epilogo lirico e crudele. Barton è sulla spiaggia, con la scatola in mano, e si avvicina a una donna che guarda il mare, la stessa donna del quadro appeso nella sua stanza d'albergo. La realtà e la sua rappresentazione si fondono. Lei assume la stessa posa, il cerchio si chiude. Ma non c'è catarsi, né salvezza. Lei gli chiede cosa ci sia nella scatola, e lui risponde: "Non lo so." Ha scritto la sua storia, è entrato nel suo quadro, ma è un paradiso artificiale e vuoto, una prigione tanto quanto l'Hotel Earle. È condannato a portarsi dietro il peso della sua incomprensione, un intellettuale fallito in un mondo che non ha mai saputo decifrare. Barton Fink non è solo una satira su Hollywood; è un trattato faustiano sul rapporto tra artista e mondo, un Künstlerroman al negativo, una parabola terrificante sulla superbia dell'intelletto e sul caos che si nasconde sotto la superficie della normalità. È la dimostrazione che a volte, l'inferno non sono gli altri, ma una stanza vuota e un foglio bianco.

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